Guardare linguaggi. Tre consigli di visione tra Napoli, Comiso e Perugia

opera di Tomaso Binga

 

L’occhio scrive, la lingua guarda: il rapporto tra sguardo e linguaggio è un nodo antico quanto il mondo, eppure instancabilmente fertile.

Ne ho avuto conferma in tre occasioni di visione avute nelle scorse settimane in giro per l’Italia, che è ancora possibile incontrare: per questo mi lancio in un triplice, appassionato consiglio.

Piccola premessa.

A proposito di guardare linguaggi, vien da pensare che fin da Platone, e poi con Aristotele, si è tracciata una linea di distinzione tra il vedere e il dire, tra l’evidenza sensibile e la codifica razionale: l’aisthesis da una parte, il logos dall’altra.

È proprio nella tensione fra questi due poli che si dispiega la complessità del linguaggio visivo, e viceversa, della visione come linguaggio.

L’opera d’arte (o più largamente in ciò che è consegnato allo sguardo, come nel caso siciliano di cui dirò fra pochissimo), nel suo farsi forma e pensiero è spesso il teatro di questa tensione.

Con l’arrivo della semiotica strutturalista nel XX secolo – da Saussure a Barthes, da Panofsky a Didi-Huberman – abbiamo imparato che l’immagine non è mai muta né ingenua.

Essa parla, e lo fa attraverso codici, convenzioni, trasgressioni.

Allo stesso tempo, il linguaggio verbale non è mai puramente astratto: porta con sé gesti, ritmi, grafismi, tracce del corpo.

Scrittura e visione si intrecciano, si ibridano, si inseguono.

È in questa chiave che ho potuto attraversare tre esperienze espositive molto diverse – a Napoli, Comiso e Perugia – ma unite, azzardo, da una tensione comune: rendere visibile il linguaggio e linguistico lo sguardo, mettere in scena la parola come corpo, come atto, come materia plastica e politica.

Fine della piccola premessa.

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Napoli. Il corpo alfabetico di Tomaso Binga: Euforia al Museo Madre

Non è solo una mostra, Euforia, ma una riscrittura. Della storia dell’arte femminile e femminista in Italia, della parola come oggetto performativo, del corpo come alfabeto critico.

Al Museo Madre di Napoli, la retrospettiva dedicata a Tomaso Binga (al secolo Bianca Pucciarelli Menna), visibile fino al 15 settembre, ci introduce in un universo estetico e teorico che si rifiuta di essere ricondotto a un solo campo semantico – poesia visiva, arte concettuale, femminismo –, per agire piuttosto come una scrittura incarnata, un atto linguistico che attraversa il corpo e lo mette in gioco come supporto, medium, testo.

Il celebre Alfabeto Poetico – in cui l’artista posa nuda assumendo le forme delle lettere – non è solo una provocazione visiva, né un semplice esercizio di stilizzazione tipografica. È una grammatica dell’identità esposta, frantumata, ironicamente mascherata.

L’io che scrive è un io corporeo, che si sdoppia e si smaschera prendendo su di sé il peso della rappresentazione.

Il suo pseudonimo maschile non è un vezzo pseudo-dadaista, ma un’operazione critica sofisticata: Tomaso Binga prende la parola da uomo per evidenziare l’invisibilità strutturale delle donne nei linguaggi istituzionalizzati dell’arte e della cultura. La firma maschile diventa così uno strumento di transito tra i generi, una torsione linguistica che smonta dall’interno il dispositivo di potere della firma e dell’autorialità.

La forza del progetto espositivo, curato da Eva Fabbris con Daria Kahn e allestito da Rio Grande, sta nel tenere insieme i molti linguaggi di Binga – performance, dattilopoemi, collage, installazioni, scritture automatiche, ironia fonetica – restituendo l’energia visionaria e la coerenza formale di un’artista che ha usato la scrittura non per dire, ma per disdire l’ordine dato.

Qui il linguaggio non è mai veicolo neutro di senso, ma atto fisico, gesto trasgressivo, campo di battaglia.

In questo senso, la mostra si può leggere anche in filigrana con una genealogia più ampia di pratiche performative in cui il corpo scrive, si fa linguaggio, si fa pagina.

È inevitabile, ad esempio, evocare il Living Theatre e Paradise Now, dove gli attori e le attrici, nudi, urlanti, attraversano lo spazio scenico inscrivendo nel e attraverso il proprio corpo desideri, disobbedienze, urgenze politiche. Anche lì il linguaggio è smascherato, privato di ogni illusione rappresentativa e restituito alla sua matrice incarnata: lingua come muscolo, come urlo.

Allo stesso modo, Tomaso Binga rompe con la verticalità patriarcale della scrittura – sempre tesa verso un fine, un significato, un soggetto – per abitare la scrittura come disordine creativo, come proliferazione visiva e performativa. I suoi dattiloscritti non cercano coerenza sintattica, ma stratificazione in sé significante; le sue performance non comunicano, ma incrinano, smontano, aprono. Come in Paradise Now, siamo davanti a un corpo-segno che si fa comunità possibile, enunciazione plurale, atto poetico radicale.

Nel percorso di Euforia, ogni opera è un dispositivo per riflettere sul modo in cui i linguaggi costruiscono e limitano i corpi, ma anche sul modo in cui i corpi possono rispondere, riscrivere, risignificare. In un tempo in cui la parola è spesso disincarnata e l’immagine ipervisibile, il lavoro di Tomaso Binga ci invita a immaginare un’altra semantica del gesto: non per dire di più, ma per dire altrimenti.

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Comiso. Le carte come corpi della memoria: la Fondazione Gesualdo Bufalino

A Comiso, in provincia di Ragusa, la Fondazione Gesualdo Bufalino non è solo un luogo della memoria, ma un dispositivo di lettura incarnato. Ogni scaffale, ogni fotografia, ogni lettera custodita nei suoi ambienti suggerisce un’idea della letteratura come stratificazione visiva e materiale, come teatro silenzioso di un’intimità mai pacificata. Lì, tra le pieghe di una biblioteca privata trasformata in archivio, lo sguardo del visitatore è continuamente rimandato alla scrittura come atto di resistenza contro l’oblio.

Lo diceva lo stesso Bufalino, in una citazione oggi posta in homepage sul sito della Fondazione e che, più di ogni altra, ne sintetizza il senso profondo: «Scrivo per ricordare, per sconfiggere l’amnesia, il silenzio, i buchi grigi del tempo, per compiere in me quello che una volta, parodiando Shakespeare, ho chiamato il miracolo del Bis, il bellissimo Riessere

Riessere: ritornare ad abitare, attraverso la scrittura, ciò che il tempo ha tentato di disfare.

La Fondazione – nata nel 1999 – diventa così il luogo concreto di quel miracolo del bis, dove la parola scritta si fa corpo, reliquia, atto d’amore filologico.

Visitarla oggi significa entrare in dialogo con oltre 10.000 volumi appartenuti all’autore, molti annotati, rilegati, provenienti da una formazione letteraria in parte artigianale e domestica: il padre di Bufalino era un fabbro, analfabeta, che gli comprava i romanzi a puntate nelle edicole locali, poi fatti rilegare con devozione.

Oltre ai volumi, la Fondazione conserva migliaia di manoscritti, lettere, taccuini, traduzioni e edizioni rare delle sue opere in molte lingue: una memoria plurilingue, a dimostrazione di una scrittura che, pur affondata nella specificità dell’italiano ultra-colto, ha parlato (e continua a parlare) a lettori sparsi in tutto il mondo. Non sorprende allora che ogni anno siano circa duemila le persone – tra studiosi, studenti, appassionati – che ne varcano le porte.

Quello che si compie in visita non è solo un pellegrinaggio culturale, ma un’esperienza semiotica in senso pieno: si guarda attraverso il linguaggio. Ogni oggetto è un segno, ogni sguardo un potenziale capitolo. La scrittura bufaliniana – iperletteraria, densa, eppure continuamente sospesa sul vuoto del non-detto – sembra riflettersi negli interni stessi della Fondazione: nulla è esibito con ridondanza, tutto è disposto secondo un ordine affettivo e mentale, che chi visita può decifrare solo entrando nel ritmo sincopato di una lingua mai pacificata.

L’identità della Fondazione è ulteriormente animata da una piccola ma curatissima rassegna estiva, intitolata L’ingegnere di Babele (titolo tratto dalla raccolta L’uomo invaso), che propone incontri, letture, spettacoli e momenti di riflessione e dalla raffinata ripubblicazione di alcune opere del Nostro.

E ancora: il legame tra Bufalino e la creazione artistica si esprime anche in dialoghi inaspettati. Franco Battiato, che nel 2010 gli ha dedicato un docufilm (Auguri don Gesualdo), aveva esposto alcuni suoi quadri proprio a Comiso, in una mostra per la quale Bufalino scrisse il testo di presentazione. Due mondi che si toccano sul crinale del mistico e della cultura alta e altra, del silenzio e dell’incedere barocco.

A pensarci bene, nulla lì è solo conservazione. La Fondazione Bufalino è un laboratorio permanente sul linguaggio e sull’identità, un luogo dove le carte non sono morte, ma continuano a scrivere e riscrivere chi le legge.

Torna alla mente Roland Barthes: «La scrittura è ciò che nell’immagine si ribella al visibile». E a Comiso, tra la densità invisibile delle carte, delle glosse a matita, delle lettere ritrovate, non è solo il linguaggio a insorgere: è il tempo stesso che, rifiutando la sua linearità, edifica il proprio ritorno.

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Perugia. Archeologie del senso: EXTRA. Segni antichi / Visioni contemporanee al Palazzo Baldeschi al Corso

Nel cuore di Perugia, le sale del settecentesco Palazzo Baldeschi al Corso accolgono fino al 6 gennaio EXTRA. Segni antichi / Visioni contemporanee, una mostra ideata da Fondazione Perugia e curata da Marco Tonelli, che si presenta come un doppio affaccio sul tempo: da un lato, le pergamene medievali della collezione Albertini, acquisite nel 2024 e provenienti da registri notarili, comunali e giudiziari tra XIII e XV secolo; dall’altro, oltre quaranta opere di diciotto artisti italiani e internazionali che, senza illustrarle o tradurle, dialogano con quelle superfici dense di storia, lacerti, discontinuità.

Il titolo EXTRA va preso alla lettera e alla radice. La parola, tratta da una delle pergamene esposte – extraordinariorum, derivata dal latino cognitio extra ordinem – indica ciò che eccede l’ordine consueto, ciò che irrompe oltre lo schema, sfuggendo alla categorizzazione. In questo senso, la mostra non è solo un confronto, ma un attraversamento. Ogni opera, ogni accostamento visivo e concettuale, è chiamato a sospendere la linearità della narrazione storica per attivare una memoria sensibile, tattile, percettiva.

EXTRA si struttura in cinque sezioni – Figurazioni, Astrazioni, Motivi, (Ri)scritture, Simboli – in cui l’iconografia araldica, la geometria dei segni, le cancellature, le glosse, gli strappi diventano materia viva, generativa. Gli stemmi con leoni rampanti, cigni, grifoni dialogano con le ceramiche iperrealiste di Bertozzi & Casoni o le figurazioni di Luigi Serafini; i motivi cromatici delle copertine si rispecchiano nell’opera astratta e modulare di David Tremlett e nei grafismi di Giorgio Griffa; le cancellature e i ricami delle pergamene trovano risonanza nei lavori di Emilio Isgrò, Maria Lai e Gastone Novelli.

Lontana dalla retorica del restauro o del documento, EXTRA mette in scena un’archeologia del senso: non l’oggetto come reliquia, ma come enigma.

Non importa, allora, comprendere tutto. Le pergamene, spesso oscure nei contenuti testuali, parlano attraverso l’andamento del segno, la distribuzione delle macchie, l’eco dei colori. Il presente guarda l’antico non per scioglierne i nodi, ma per condividerne il mistero.

Oltre la cronologia e la storia dell’arte, si attiva una geologia dello sguardo. Dove il segno si fa ferita, traccia, sopravvivenza. Dove la materia parla, e non sempre in modo chiaro. Dove il reperto non è chiuso nel suo passato, ma riaccade, nel presente.

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David Tremlett, Umbria Jazz #1, 2023 – Manifesto della 30ª edizione di Umbria Jazz Winter

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Conclusione. Visioni che scrivono, segni che guardano

Napoli, Comiso, Perugia. Tre luoghi, tre esperienze, tre atti di visione. Ma anche tre gesti di professionalità e cura che hanno reso possibile l’incontro con opere, spazi, sguardi. Perché la cultura, nel suo farsi esperienza, si regge sempre anche su relazioni concrete, sul corpo vivo di chi accoglie e accompagna.

A Napoli, un signore alla biglietteria ha accolto con premura e gentilezza la mia cagnolina Emma, permettendomi – inaspettatamente – di varcare la soglia della mostra.

A Comiso, Giovanni Iemulo, bibliotecario appassionato e custode colto della memoria della Fondazione Bufalino, ha guidato la visita con tale coinvolgimento da rendere ogni oggetto racconto, ogni parola visione.

A Perugia, la competenza garbata e lo sguardo lucido del gallerista Alessio Stefanelli ha trasformato l’attraversamento di EXTRA in un esercizio di ascolto, dove ogni pergamena e ogni opera contemporanea risuonava di una voce nuova.

In tempi di disintermediazione culturale e fruizione solitaria, questi gesti – piccoli, irripetibili, necessari – riaffermano il valore del rapporto umano nell’incontro con i progetti culturali.

Mi ricordano che non esistono mostre senza chi le custodisce, archivi senza chi li abita, opere senza chi le attraversa con sguardo partecipe.

Napoli, Comiso, Perugia: tre dispositivi linguistici – la mostra come pagina, la casa come testo, il museo come glossa – ma anche tre nomi propri, tre presenze, tre voci che hanno reso ogni visione più vera. Perché l’arte, quando è davvero linguaggio, ci insegna non solo a vedere il mondo, ma a vedere come lo vediamo.

E a ribadire che lo sguardo, come ogni parola, si apre davvero solo quando ne incontra un altro.

 

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