Le Grandiose Microdanze di Aterballetto a Granada

ph Celeste Lombardi

 

Granada è una terra sospesa, tra il mondo e la dominazione araba, la fascinosa struttura dell’Alhambra è ancora lì a testimoniarne il passaggio, e la Spagna attuale in forte crescita, tra la tradizione cruenta dell’Arena de Toros e la corrida, le tapas e la cerveza bevuta a fiumi, la penna di Garcia Lorca e la nuova street art che domina le strade del quartiere Realejo dove campeggiano i colori dei murales dell’urban artist El Nino de las Pinturas che qui è nato e cresciuto artisticamente, la cattedrale imponente e il forte richiamo gitano al flamenco, la neve perenne sulle cime della Sierra Nevada e il caldo tambureggiante dei viali del centro coperti con teli a formare ombre salvifiche. Qui la musica e la danza sono nel dna delle generazioni. Qui abbiamo potuto assistere a due illuminanti performance costruite su tanti piccoli mini spettacoli, aperture, slanci, morsi, parentesi di danza contemporanea a cura di Aterballetto, primo Centro Coreografico Nazionale italiano (proprio in questi giorni ha ricevuto l’ennesimo riconoscimento il Taobuk Award for Literary Excellence) attivo da quasi 50 anni (appuntamento estero in collaborazione con la Direzione Generale per la Diplomazia Pubblica e Culturale del Maeci e l’Istituto Italiano di Cultura di Madrid), storica compagnia con base a Reggio Emilia ma tra le più internazionali che abbiamo nello Stivale.

Il primo dei due appuntamenti, entrambi nel cartellone del programma del 74esimo Festival de Granada all’interno del parco e della magnificenza dell’Alhambra (significa “rossa” e non perché le mura siano attualmente rosse di argilla ma perché al tempo degli arabi le pareti erano bianche ma con il colore e il fuoco delle fiaccole da lontano prendeva questo colore imporporato), è andato in scena sul gigantesco palco del Generalife, tutto contornato di cipressi allungati come fiammelle a cercare il cielo, mentre il secondo, altrettanto emozionante, è stato un viaggio itinerante, per pochi spettatori per tre repliche consecutive (grande forza e resistenza da parte dei danzatori, veri atleti muscolari sotto la calura), nei luoghi più nascosti della fortezza, a scoprire angoli e anfratti non battuti dall’orda turistica. Il primo spettacolo doveva essere il loro folgorante Don Juan. Già doveva essere ma non è stato per un improvviso infortunio, il giorno prima durante le prove, occorso al primo danzatore, Leonardo Farina, ovvero proprio il Don Giovanni caduto in una evoluzione sui trampoli. Aterballetto, gruppo mainstream con la sua grande organizzazione curata al dettaglio millimetrico coordinata dagli alacri Gigi Cristoforetti, direttore artistico, e Sveva Berti, direttrice di compagnia, non si è persa d’animo e ha immediatamente creato le condizioni per soddisfare le 2.000 presenze del teatro all’aperto proponendo quattro estratti di repertorio intensi, energetici, suadenti. Un piccolo trauma e dramma artistico subito assorbito dalla professionalità del gruppo coreografico. Se vogliamo, tra la prima serata e la seconda, abbiamo potuto godere di dieci, quattro al Generalife e sei in giro per l’Alhambra, microdanze avendo così un quadro più complessivo dell’intero ventaglio e panorama dell’opera recente della compagnia. Ecco che sono andati in scena La scena del matrimonio del Don Juan (6 minuti), Rhapsody in blue (25′) sulle note di Gershwin, Reconciliatio (10′) sulla Sonata alla Luna di Beethoven, Bliss (27′) sul Concerto di Colonia del ’75 di Keith Jarrett. Aterballetto ha sedici giovani e bellissimi danzatori, provenienti da ogni parte del mondo, e ogni volta affida un suo progetto a grandi coreografi internazionali. Il Don Juan e Bliss sono di Johan Inger, Rhapsody di Iratxe Ansa e Igor Bacovich, Reconciliatio di Angelin Preljocaj.

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ph Claudio Montanari

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Nel primo estratto, dal Don Juan, i due sposi in bianco stanno su un piedistallo mentre sotto di loro la gioia, la festa e la locura del ricevimento popolare prende corpo e piede tra colori e abiti spumeggianti che vorticano. Lui è un Achille Lauro, lei sembra uscita da Grease. In mezzo appare come Uomo nero a rompere l’armonia della novella coppia il Don Giovanni, arrogante, seducente, tentatore luciferino, mellifluo, camaleontico che, mentre il promesso marito si è ubriacato nella felicità di un bicchiere di troppo, l’amante per eccellenza, al quale è impossibile resistere, è scappato con la sua dama proprio nel giorno delle nozze. Don Juan è quello che gli altri vorrebbero trovarsi di fronte, è pericoloso ma anche accogliente, racconta quello che ognuno di noi vorrebbe sentirsi dire, rassicurante ma anche conturbante, misterioso e irrisolto, azzardo affascinante e rischioso, abisso da caderci dentro, stimola la curiosità e apre i sensi come una porta magica, ti chiama a sé come le sirene di Ulisse alle quali è assurdo dire di no. In mezzo ai colori che vorticano, i non-colori: il bianco degli sposi è la banalità candida di chi non ha vissuto e quindi non ha esperienza e poco da raccontare, mentre il nero del Nostro antieroe è un cratere, è il nero del buco di Anish Kapoor che ti fa perdere l’equilibrio, sperperare la saggezza, cadere nella vertigine.

In Rhapsody in blue emerge e sprizza, esplode come magma vulcanico e deflagra la meraviglia e la gioia di vivere, la sensualità di un corpo di ballo che si chiude a medusa per poi detonare in movimenti sinuosi, come anemone di mare, giocosa, felice esultanza dei sensi che prendono il sopravvento sulla ragione. Si ritrova una energia che mette di buonumore, così potente e malleabile, così mutevole di sentimenti da frastornare, cangiante muta e ci porta con sé trascinandoci dentro l’irrefrenabile onda che surfiamo insieme a chi calca il palcoscenico. Un grande sole dell’Avvenire, quasi pianeta apocalittico invadente, voluminoso e penetrante alla vista, sta sul fondale a ricordarci la caducità della vita e il diktat di vivere tutte le emozioni e bere tutte le sensazioni che il corpo e la curiosità possono regalarci, senza freni, senza posa, senza resa, dando spazio alla fantasia, all’improvvisazione, all’attimo da cogliere. Questa palla dietro, che coccola, accoglie ma è anche occhio giudicante come telecamere da Grande Fratello che ci spia consapevolmente, è un vero e proprio personaggio dell’ensemble e della composizione, pare un Saturno (contro?) che regola le maree vitali, azzera la volontà, che sposta come calamita i metalli, che attira e respinge gli umani al suo volere. I danzatori si riuniscono per poi disgregarsi, si compattano per poi disperdersi, formano una palla (forse per contrastare quest’entità ingombrante e perentoria) per poi spezzarsi nell’individualità del singolo, cercano la solidarietà nell’abbraccio collettivo per poi essere risputati nella vita.

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ph Celeste Lombardi

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Eccoci a Reconciliatio, a differenza delle altre due composizioni collettive qui è un duo a dividersi la scena. Abiti futuristi candidi con ali, alettoni spaziali o paracaduti sulle spalle, sulle note della celebre sonata di Beethoven dedicata al corpo celeste bucato da infiniti crateri che mette sempre i brividi, si spandono bellezza, armonia, fusione, il bianco poetico dei due corpi femminili si esalta bucando il nero del fondale: ci riconcilia.

Infine Bliss, ancora una volta con la folta e focosa ed ispirata compagnia al completo, sulla composizione che ha segnato un’epoca, il concerto di Colonia di Keith Jarrett. Chiudere e gli occhi e lasciarsi trasportare cercando, e trovando, quella beatitudine, la traduzione del titolo, che la musica esprime e che i corpi di gambe e braccia sanno benissimo tramutare in movimento e gesto.

Più emozionanti, sarà perché seguivamo il flusso e la carovana come portati da un Pifferaio magico, le Microdanze dentro angoli, cortili, sale nascoste, terrazze. I gatti dell’Alhambra si inseguono tra le volute di polvere che questo vento caldo alza a folate facendo stringere gli occhi, già stretti per la cocente calura. Attorno a noi i profumi del mandorlo, del cipresso, del fico, del mirto mentre in fondo alla vista le case bianche in lontananza si affollano. Una riflessione: questi danzatori e danzatrici hanno una grande tecnica, padronanza della scena, fisicità esplosiva, corpi delineati che è un piacere veder muoversi tra la tensione muscolare e la concentrazione della coreografia. Tra le sei microdanze proposte qui ne abbiamo scelte tre nelle quali la danza si fondeva con i costumi, con una scena creando un senso tangibile, foriero di svariate prospettive e interpretazioni, capaci di suscitare dibattito e ragionamenti e domande.

Ci ha molto colpiti Turn the tide (5′) dove, in un cortile bianco con il panorama mozzafiato della città andalusa che sbuca dai tre grandi archi, una signora ricca, che pare uscita da una pubblicità chic e raffinata di Dolce & Gabbana (ma anche in posa per Mapplethorpe o Helmut Newton), se ne sta immobile, modella altezzosa, annoiata dalla vita e figurina impostata come Audrey Hepburn, con il suo vestito attillato, tavolo, sedia, bottiglia, scarpe, occhiali, piccolo ventilatore, nebulizzatore tutti oggetti rigorosamente di un bianco candido. Dietro di lei un bodyguard di una quale tecnocrazia futurista e dispotica e distopica, ovviamente nero, pare appena uscito da Star Wars, duro, arcigno, severo, solido, robotico. La Miss algida (Arianna Kob) si muove come in una break dance, come un dj con le mani a scratchare il vinile sul piatto, tenta di alzarsi in loop, si toglie un filo o spago o addirittura uno spaghetto rimastole indigesto, rimane in bilico con un piede sul tavolo e la sedia reclinata all’indietro fin quando il cameriere-guardaspalle non le riempie il suo calice bianco con centinaia di piccole pastiglie-pasticche, bianche anch’esse (l’asetticità manicomiale, la purezza, l’assenza di sporcizia ma anche la negazione dei colori e conseguentemente della vita), per un’overdose, vista la banalità di quell’esistenza sotto una campana di vetro monotona, o per la dose quotidiana di integratori o sedativi per poter sopportare tutto quel tempo sprecato.

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ph Neven Petrovic

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In Platform (6′) la performer Gador Lago Benito si muove tra parallelepipedi bianchi che fanno contrasto con il tramonto e il rosso delle mura della fortezza saracena. La sua danza è minimale perché compressa in un piccolo spazio sopraelevato immersa tra questi quadrati che impila per rendersi più alta e guardare oltre lo steccato, oltre il recinto e finalmente vedere lo skyline della città. Pare un orso bianco che veleggia e galleggia sugli ultimi scogli che si stanno sciogliendo mentre se ne va alla deriva tra i ghiacciai accaldati e sudanti. Potrebbe essere un podio olimpico o tanti grattacieli a impedire la visuale della valle: è una ribellione il salire più in alto e lanciare lo sguardo oltre la siepe, affinare la curiosità, vedere con i propri occhi quello che ci circonda.

E infine Eppur si muove (5′) con Clement Haenen statua dorata dai leggeri e soffici movimenti posta sopra non un piedistallo di marmo ma un ben più prosaico bidone da meccanico o benzinaio. Monumento-carillon che si esprime in uno spazio ristrettissimo mostrando capacità, leggerezza pur nella fisicità imponente, e una delicatezza di veli, quasi un Apollo sceso ad indicarci la strada del Sole.

 

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Sono laureato in Scienze Politiche alla Cesare Alfieri di Firenze, sono iscritto all'Ordine dei Giornalisti dal 2004 e critico teatrale. Ho scritto, tra gli altri, per i giornali cartacei Il Corriere di Firenze, per il Portale Giovani del Comune di Firenze, per la rivista della Biennale Teatro di Venezia, 2011, 2012, per “Il Fatto Quotidiano” e sul ilfattoquotidiano, per i mensili “Ambasciata Teatrale”, “Lungarno”, per il sito “Words in Freedom”; per “Florence is You”, per la rivista trimestrale “Hystrio”. Parallelamente per i siti internet: succoacido.it, scanner.it, corrierenazionale.it, rumorscena.com, Erodoto 108, recensito.net. Sono nella giuria del Premio Ubu, giurato del Premio Hystrio, membro dell'A.N.C.T., membro di Rete Critica, membro dell'Associazione Teatro Europeo, oltre che giurato per svariati premi e concorsi teatrali italiani e internazionali. Ho pubblicato, con la casa editrice Titivillus, il volume “Mare, Marmo, Memoria” sull'attrice Elisabetta Salvatori. Ho vinto i seguenti premi di critica teatrale: il “Gran Premio Internazionale di critica teatrale Carlos Porto '17”, Festival de Almada, Lisbona, il Premio “Istrice d'Argento '18”, Dramma Popolare San Miniato, il “Premio Città di Montalcino per la Critica d'Arte '19”, il Premio “Chilometri Critici '20”, Teatro delle Sfide di Bientina, il “Premio Carlo Terron '20”, all'interno del “Premio Sipario”, “Festival fare Critica”, Lamezia Terme, il “Premio Scena Critica '20” a cura del sito www.scenacritica.it, il “Premio giornalistico internazionale Campania Terra Felix '20”, sezione “Premio Web Stampa Specializzata”, di Pozzuoli, il Premio Speciale della Giuria al “Premio Casentino '21” sezione “Teatro/Cinema/Critica Cinematografica e Teatrale”, di Poppi, il “Premio Carlos Porto 2020 – Imprensa especializada” a Lisbona. Nel corso di questi anni sono stato invitato in prestigiosi festival internazionali come “Open Look”, San Pietroburgo; “Festival de Almada”, Lisbona; Festival “GIFT”, Tbilisi, Georgia; “Fiams”, Saguenay, Quebec, Canada; “Summerworks”, Toronto, Canada; Teatro Qendra, Pristhina, Kosovo; “International Meetings in Cluj”, Romania; “Mladi Levi”, Lubiana, Slovenia; “Fit Festival”, Lugano, Svizzera; “Mot Festival”, Skopje, Macedonia; “Pierrot Festival”, Stara Zagora, Bulgaria; “Fujairah International Arts festival”, Emirati Arabi Uniti, “Festival Black & White”, Imatra, Finlandia.

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