Blocchi di arenaria grigia a perdita d’occhio e un basso cielo di piombo che grava sull’afa di metà agosto sono ingredienti ideali per narrare la vicenda cupa e asfissiante di Josef K., protagonista del Processo, l’incompiuto capolavoro di Kafka. Scritto all’inizio del primo conflitto mondiale ed edito postumo nel 1925, il romanzo è stato scelto da Archiviozeta per una libera rielaborazione e messa in scena presso il Cimitero militare germanico della Futa. Non a caso si tratta di uno spettacolo sospeso, in sé concluso ma non finito: ad andare in scena è il primo dibattimento, mentre la seconda parte si vedrà nel 2026, nel medesimo luogo. Come accade da oltre vent’anni, nella prima metà del mese di agosto questo monumentale sacrario, luogo della memoria e del compianto, eretto per dare sepoltura ai ragazzi tedeschi morti durante la seconda guerra mondiale, diventa lo spazio in cui condurre il pubblico attraverso un percorso itinerante che ragiona su temi legati alla guerra, alle sue conseguenze, al non senso che da sempre alberga in essa. Tutto intorno a noi riposano le lunghe file di lapidi orizzontali, a doppio spiovente, che solcano i prati con i loro spigoli tra ombra e luce ed i solchi incisi con i nomi, o più spesso con l’indicazione dell’assenza di un nome, degli oltre 30000 caduti.
L’adattamento drammaturgico e la messa in scena sono di Gianluca Guidotti ed Enrica Sangiovanni, entrambi registi kantoriani, presenze che fanno da collante nel dinamico susseguirsi dei quadri in cui gli altri cinque giovani attori della compagnia (Mattia Bartoletti, Stella Diana Dardi, Pouria Jashn Tirgan, Giuseppe Losacco, Andrea Maffetti, tutti formati presso l’Accademia Nico Pepe di Udine) interpretano ruoli sempre diversi.
L’archittettura dialoga con il cielo
Il nostro mosso ed intermittente viandare ci porta dentro un testo che ha le sue fondamenta e la sua ragion d’essere più profonda nel nulla di una gigantesca voragine, in un immenso vuoto che sostiene l’intera costruzione. E infatti ci muoviamo in un’architettura che dialoga con l’aria ed il cielo che le danno forma, che si compenetra con la sconfinata ampiezza del vuoto; percorriamo vialetti, saliamo gradini, costeggiamo scure muraglie, ci sediamo sotto al grande dente-prisma di pietra acuta, screziato di bianchi e di grigi, superficie ora liscia ora scabra che si protende verso il cielo tagliandolo di netto, da ultimo ci raccogliamo nello spazio angusto e claustrofobico del sacrario sottostante, sul cui pavimento si posa una scultura che ora evoca il braciere della fiamma eterna ora è tagliola, bocca di pianta carnivora, corona di spine.

Notevolissima la scena d’apertura nella quale si ricorda un passo dei diari di Kafka, datato 2 agosto 1914, in cui viene annotato al mattino lo scoppio della guerra e al pomeriggio Lezione di nuoto (a distanza di cento anni nulla di diverso accade nelle nostre vite tra aperitivi, vacanze, problemi superflui e due conflitti alle soglie d’Europa). Nel segno di questo paradosso tra crisi e banalità, tra straordinario e quotidiano, lo spettacolo esordisce trasformando quattro figure maschili sedute di spalle, intente a percuotere ossessivamente con le mani i loro sedili di legno, in nuotatori in piedi sui blocchi di partenza, che remigano l’aria con le braccia come in una coreografia o in uno studio del dinamismo futurista, surreali come La Nuotatrice di Picasso.
K, il prigioniero libero
È l’incongruenza, il vuoto assoluto di senso, il vacillare della percezione stessa del reale, il venir meno di ogni punto di riferimento, di ogni stella fissa, è una grande bolla di niente che fagocita in una mattina come un’altra l’esistenza di un uomo arrestato senza accusa, colpevole senza imputazione, incriminato senza colpa. Alla sua identità e al suo nome si sostituisce una grande lettera K, gialla, sintetica ed iconica come un marchio di infamia o come il logo di una celebre multinazionale americana di cereali (non a caso K. viene arrestato prima di colazione, con suo grande disappunto), cucita sul dorso della giacca che le guardie gli fanno indossare dopo l’arresto, eco non troppo lontana della stella che identificava gli ebrei durante il regime nazista. Camminiamo in una dimensione onirica, fantasmatica, in uno spaesamento vertiginoso e sublime della coscienza. È ‘solo’ la mente di K. ad essere in trappola, non ci sono catene, manette o costrizione fisica, assistiamo ad un arresto paradossale che ha come unica arma la parola, la manipolazione della percezione dell’Io e del reale: Il tribunale non vuole nulla da te, ti accoglie quando arrivi e ti lascia andare quando te ne vai. K. è dunque un prigioniero libero, la sua catena è l’angoscia che scaturisce dal senso di smarrimento indotto forzatamente in lui dall’impossibilità di conoscere la natura della propria colpa, è il sentirsi macchiato senza ragione apparente, è la reputazione che vacilla arbitrariamente, per scelta di altri, in una gabbia invisibile e inquietante che può condurre alla follia. La sua identità diviene progressivamente sempre più scivolosa e incerta, instabile ed inafferrabile, come ben visualizzato dalla scelta di far interpretare il personaggio a quattro diversi attori (i percussionisti nuotatori) che in sequenza ne assumono la parte, passandosi la giacca con la grande K. Mentre attraversa vorticosamente interrogatori, conversazioni con i colleghi della banca, con la padrona di casa, con la vicina di stanza e con il giudice del tribunale, K. si aggrappa, o almeno tenta di ancorarsi, per non smarrirsi del tutto, a ciò che ha sempre saputo di sé, a ciò che ritiene solido e vero, per divincolarsi nel magma oscuro di un non detto che dilaga assediandolo da ogni lato e che percepiamo come frutto di una sorta di dittatura, uno stato di polizia messo in campo da un non meglio specificato regime castrante e senza nome, illiberale e tirannico che confonde le coscienze e ottenebra le menti affogandole nelle sabbie mobili dell’irrazionale, dove tutto è arbitrario e dove una guerra non è ancora in atto ma probabilmente si sta preparando. Siamo immersi in una dimensione di violenza psicologica costante e sotterranea, e forse la temperie è proprio quella in cui uscì il romanzo, tra due guerre, quella con la quale il potere si è affermato e quella che porterà alla liberazione: in mezzo vi è un regime che con regole ossessive, farraginose ed irragionevoli trasforma i cittadini in sudditi. Un oggetto simbolico frequentemente utilizzato in scena riassume alla perfezione le modalità di esercizio della forza in questo scenario dispotico e distopico ma non irrealistico: sono lunghe aste di legno che hanno all’estremità una mano sagomata con l’indice puntato, che apostrofano e giudicano, mirano e sparano, senza mai lasciare ferite visibili, propulsori delle infamie scagliate con la lingua, manifestazione visibile di una supremazia esercitata mettendo la parola a servizio della volontà di potenza, utilizzandola per disintegrare la realtà anziché per darle forma.

Scene di taglio pittorico
Una regia vibrante e una messa in scena di taglio pittorico valorizzano ed amplificano gli elementi oscuri ed angoscianti del testo, alimentando un senso di malessere e disagio achillelauresco, a cominciare dal nero compatto dei costumi (da segnalare quello del giudice, Gianluca Guidotti, un misto tra taglialegna e boia, sembra uscito da una tela di Bosch) proseguendo con le transizioni sonore utilizzate durante gli spostamenti ed i rumori prodotti con diversi oggetti di scena in legno e metallo e poi con i contrasti caravaggeschi tra luce e buio, come nella suggestiva e asfissiante scena finale all’interno del sacrario, dove noi spettatori ci fronteggiamo, seduti ai due lati di un sipario di tessuti neri appesi ad un filo con lampadine da sagra e la luce del tramonto disegna le silhouette delle figure dei primi tre K. appollaiati nei vani delle lunghe finestre orizzontali, quasi dei loculi-sarcofago in sedici noni. Il timing dello spettacolo, iniziato nel tardo pomeriggio, è perfettamente sincronizzato con il tramonto del sole, sul quale le finestre stesse offrono una perfetta inquadratura, appositamente calcolata per stabilire un nesso immediato con il rosso del sangue sparso e con la funzione funeraria del luogo stesso. Quando varchiamo il cancello le lame di luce già inondano la stanza, ci fanno socchiudere gli occhi, vediamo confusamente, i contrasti sono esasperati, figure scure si muovono in controluce, pochi movimenti sono chiaramente percettibili ma possiamo ascoltare distintamente le parole. In questa aula di tribunale in cui il quarto K. si aggira frenetico, attorno e sopra la corona di spine, il giudice deandreiano sta in piedi dietro un bancone che tratta come un ceppo da macelleria, mentre Enrica Sangiovanni (a metà tra la Lattaia di Vermeer e le figure femminili al tavolo dei I mangiatori di patate di Van Gogh) continua a sistemare i teli neri sul filo che taglia diagonalmente lo spazio, traendoli da un grande catino di zinco. È questo un altro oggetto di grande rilievo, simbolo dell’impossibilità di un lavacro purificatore per le coscienze del regime, i panni neri appunto, che rimangono color della pece anche dopo essere state pulite e stese ad asciugare a questo sole di sangue. Usciamo e l’aria è cambiata, svanito il tepore pomeridiano sentiamo ora crescere nel crepuscolo un freddo che dalle milizie teutoniche sale e ci aggroviglia fin dentro le nostre coscienze, Noi due orfanelli alla roulette siamo a Las Vegas sotto un led (Achille Lauro, Incoscienti giovani).
Il prossimo appuntamento con la compagnia sarà a fine ottobre all’Istituto Ortopedico Rizzoli di Bologna, con uno spettacolo dedicato al corpo e all’anatomia.
Visto il 15 agosto al Cimitero Germanico della Futa.


