E’ davvero una questione di quantità?

Viviamo nell’epoca della quantificazione. Tutto viene ridotto a numeri. Una diretta conseguenza della rivoluzione digitale che grazie alle nostre tracce lasciate sul web è possibile analizzare i comportamenti dei consumatori o degli utenti. Una manna dal cielo per l’industria e il commercio che in questo modo non rischiano più nulla e orientano le produzioni grazie alle analisi dei gusti dei clienti filtrate dalle intelligenze artificiali.

La tendenza politica degli ultimi anni è stata quella di applicare la stessa logica agli istituti culturali ed educativi. Così i musei, una mostra, un concerto, uno spettacolo, un film, una qualsiasi produzione artistica, sono valutati – quel che è peggio anche nei bandi di finanziamento regionali e del Ministero della Cultura – in base a logiche di consumo: quanti visitatori, quanti likes e followers sui social, quante visite sul sito web, quante nuove applicazioni digitali sono state introdotte, come se la missione di un istituto culturale fosse esclusivamente quello di attrazione turistica o di produttore di eventi di massa e ancor peggio come se la sola innovazione possibile fosse quella digitale.

Quale è allora il valore aggiunto di una politica culturale se quello che si chiede alla programmazione è sostanzialmente di avere tanto pubblico? Perché un governo dovrebbe finanziare eventi che probabilmente starebbero in piedi anche senza finanziamenti pubblici?

La quantità, come metro di giudizio, è insufficiente. Sappiamo benissimo che gran parte del teatro, dell’opera lirica o della musica classica sarebbero forme artistiche già estinte, se il solo strumento di valutazione fosse quello numerico.

La crescita umana e sociale avviene attraverso l’evoluzione del pensiero e la consapevolezza storica che quello che siamo oggi lo dobbiamo ai nostri antenati.

Come possiamo evolverci senza ricerca e senza studio del passato?

Nel settore culturale ed educativo seguire la logica dei numeri è tutt’altro che lungimirante. La fruizione culturale si sta appiattendo sull’intrattenimento proprio perché la proposta culturale ha dimenticato la sua missione educativa, il suo spazio di scoperta, di avanguardia, di libertà e di audacia.

Il risultato sarà una società manierista che finirà per auto-fagocitarsi riproponendo sempre gli stessi contenuti, perché l’esplorazione del nuovo è un rischio che non può permettersi.

 

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