Sono qui seduto nel mio salotto immerso nel buio.
Le mie vecchie cuffie non sono “al massimo” ma so esattamente come muovermi: basta trovare la posizione giusta per catturare quel sottile, quasi impercettibile, “scivolare” della musica sul vinile.
La puntina si posa e parte My Funny Valentine di Chet Baker.
La sua voce trattiene il respiro, l’aria sembra farsi liquida; il contrabbasso è caldo e la tromba, beh, la tromba è un sospiro lontano. La malinconia si scioglie fra le note, mentre i silenzi, quelli “fragili” sanno dire molto più delle parole.
È stato naturale pensare a Billie Holiday.
Il paragone è stato quasi obbligato: due mondi, due vite, due battiti: la voce di Billie è roca, vellutata ma intimamente profonda, l’esatto contrario di quella di Chet. La voce di Baker è sottile, non è “urlata”, ma riesce lo stesso a emozionarmi con una semplicità e una fragilità che sono disarmanti. Bille è da sempre una delle mie muse ispiratrici: nella sua voce ritrovo tutta la mia malinconia. Tutte le passioni hanno la loro malinconia, la loro musica, io ho la mia.
A un certo punto mi sono ritrovato a riavvolgere mentalmente le note sul disco, a chiedermi se ci sia oggi qualcuno capace di catturare la stessa anima sospesa di Billie Holiday, con la sua stessa magia.
Un giorno YouTube mi ha proposto un click, non cercato e non pensato, ed eccomi ad ascoltare Ilya Serov.
Un trombettista, un cantante, un giovane musicista eclettico, fuori dagli schemi. Un artista che ha fatto sue, le malinconie di Baker e Holiday: ha trasformato il dolore, ha scolpito le loro note in qualcosa di radicalmente nuovo. Le sue sonorità sono entrate nella storia del jazz.
Lì, in quel momento, mentre ascoltavo la sua musica, ho capito che Ilya sarebbe entrato nella mia personale raccolta di cd.
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Ilya Serov è nato in Russia, si è formato all’Accademia di San Pietroburgo in studi classici alla tromba, poi ha scelto di inseguire il jazz trasferendosi negli Stati Uniti dove oggi vive e lavora.
Si è fatto conoscere con September in the rain nel 2013, un album che mischia gli standard del jazz alla sua particolare voce.
E’ l’autore di Back in Time, uscito nel 2018, un progetto di arrangiamento dei classici al fianco di musicisti come Poncho Sanchez ed Eric Marinetta. Nel 2021 ha dedicato un disco intero, Just Friends, alla memoria di Chet Baker.
Più di recente ha pubblicato Colors, un lavoro di musiche originali che ha segnato la sua maturità artistica.
L’album è una collezione di Contemporary jazz, con una tavolozza di soul-jazz, Groove R&B e voci pop.
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Serov come Chet non è solo un musicista, la sua voce è un’estensione della sua tromba, un secondo timbro con cui dialoga costantemente. È questo che lo rende interessante, non sono due ruoli separati ma due anime che si intrecciano. Nei suoi arrangiamenti non usa la potenza della tromba, non serve, preferisce il fraseggio morbido, che è lo stesso spirito che mi affascina in Baker e Holiday; quell’idea che la musica deve sussurrare…
Eppure Serov non è un nostalgico, è versatile un giocoliere, ha lavorato alla creazione di un nuovo strumento, il Jazzohorn, una sorta di flicorno ibrido, con caratteristiche timbriche uniche. Serov esplora sonorità che non appartengono né alla tradizione classica né al jazz degli anni Trenta e Cinquanta.
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Il fascino di Serov è chiuso nella sua capacità di raccontare storie a due voci, che sembrano una sola, di richiamare il passato senza svuotarlo, di cercare il dolore e la luce dentro la stessa nota.
Ascoltandolo ho avuto la sensazione che da Chet, passando da Billie, la musica sia stata una staffetta di emozioni in corsa, che ha saputo trasformare la sofferenza in bellezza.
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