Per trovare la propria identità, a volte, è necessario disobbedire a sé stessi. Federica Amatuccio (regista) e Andrea Gianessi (musicista e compositore) da più di un decennio “trasgrediscono” le regole e gli standard del teatro comunemente inteso, per elaborare un personale modo di interrogare la scena, di dare forma a un’estetica, di accedere a quell’altrove proprio dell’accadimento performativo. Un processo che li ha portati a mettere in discussione il loro stesso nome, che da Teatro dei Servi Disobbedienti diventa oggi Diade e con cui firmano la loro ultima creazione Ave Medea, in scena il 24 ottobre 2025 ad Ateliersì, a cui seguirà un incontro con la compagnia e con la studiosa Lucia Amara.
«Quando abbiamo iniziato a fare teatro – racconta Andrea – era il 2013, ci chiamavamo Teatro dei Servi Disobbedienti ed eravamo dieci persone. Con il tempo il gruppo si è disgregato, vuoi per la naturale crescita individuale, vuoi per Bologna che per molti è di passaggio. Io e Federica siamo invece rimasti, diventando un vero e proprio fulcro creativo. L’idea di darci un’altra identità l’avevamo dunque in mente già da tempo, anche perché il termine “Teatro” presente nel precedente nome ci chiudeva in un mondo che iniziavamo a sentire stretto. Sebbene per noi il teatro sia un’arte totale, non è infatti lo stesso per il senso comune; la nostra ricerca aveva invece preso una strada sempre più performativa, ricca di contaminazioni fra le arti».
«Non siamo mai stati legati alla prosa – aggiunge Federica – al testo autoriale, a una modalità di regia in cui un singolo individuo governa e compone la scena. Musica, arti visive, performance sono di fatto elementi che ci hanno sempre caratterizzato, ma forse ne abbiamo preso coscienza solo a un certo punto del percorso».
Andrea: «Da questa consapevolezza abbiamo quindi cercato un nome che rappresentasse meglio la nostra situazione artistica e, piano piano, è spuntato Diade, un termine che indica dualità nell’unità, un insieme di due elementi che si completano. La diade in musica è un bicordo, quindi, ancora una volta, una dualità che si armonizza; in filosofia rimanda al principio della varietà e della scoperta dell’altro, che per noi è una pratica fondamentale per evitare una chiusura autoreferenziale».
Federica: «Volevamo darci un’identità più forte e, potrà sembrare banale, ma Diade è anche un nome che “suona bene”, che si ricorda. Diade siamo noi due, ognuno con il proprio ruolo, che insieme generiamo la creazione».
Andrea: «Ciò non significa che non collaboriamo con altre persone, ma che a questo punto siamo noi, in quanto diade, a metterci in contatto con tanti altri artisti, con le loro ricerche, con le loro intuizioni performative».
Cosa resta della disobbedienza del precedente nome? È ancora parte del vostro processo creativo?
Federica: «La disobbedienza è una pratica che ci caratterizza prima di tutto come individui e perciò non abbandoneremo mai, nella vita e nell’arte. Il cambio del nome non è dunque una rottura netta con ciò che è stato: la nostra ricerca è in continuo mutamento dal primo giorno che abbiamo iniziato a fare teatro».
Andrea: «Disobbedienza per noi significa uscire dalla zona di comfort, distruggere ciò che non sentiamo più andarci bene per trovare nuove direzioni…»
Federica: «Questo significa anche disobbedire a noi stessi: scegliere la disobbedienza come motore creativo non vuol dire opporsi solo a qualcosa di esterno, ma anche mettere in discussione noi stessi. È riconoscere che qualcosa non funziona più e avere il coraggio di andare controcorrente, aprendo lo spazio a nuove prospettive».

A proposito di andare controcorrente per restare fedeli a un percorso e tradirlo al contempo, Ave Medea è un progetto che inizia nel 2023 e, ancor prima, con l’incontro con il testo di Heiner Müller. Come e quando è arrivata quest’opera?
Federica: «Scegliere di lavorare a partire da un testo di uno dei drammaturghi più famosi d’Europa è stato, di fatto, un atto di disobbedienza a noi stessi: finora non avevamo mai portato in scena un’opera intera, il testo e la parola erano solo alcuni degli elementi dello spettacolo. Invece Riva abbandonata Materiali per Medea Paesaggio con Argonauti ha delle peculiarità che ho trovato affini al nostro modo di fare teatro. L’opera mi è capitata sotto mano nel 2019 grazie a Nicola Bruschi, mio professore all’Accademia di Belle Arti, con cui al tempo collaboravo per dei laboratori di regia. Müller lo conoscevo per fama, lo avevo approfondito per il progetto Hamlet Machine, ma appena ho letto Materiali per Medea ho pensato che dovessimo portarlo noi in scena. Con l’Accademia purtroppo non c’è stato modo di lavorarci davvero, a causa della pandemia. Poi nel 2023 incontriamo Emiliano Albor Boscato, oggi uno dei performer, e ho subito pensato fosse perfetto per relazionarsi con il testo di Müller. Da quel momento abbiamo deciso di provarci davvero.
Qual è stata la scintilla che vi ha acceso l’interesse e il desiderio di portare quest’opera in scena?
Federica: «Innanzitutto il fatto che il testo fosse scritto in versi: la poesia ci avrebbe permesso di lavorare sul piano musicale e su diverse stratificazioni di senso, dal momento che è molto breve ma densissimo di significato. La parola di Müller apre a una miriade di immagini e paesaggi, è evocativa. L’unica figura presente è Medea, ma la mia idea era di avere almeno due persone in scena. Dopo Emiliano ho pensato subito a Eugenia Galli, poeta performativa contemporanea di cui conosciamo bene il suo lavoro artistico e con cui da anni volevamo collaborare: ci è sembrata l’occasione giusta. Sia Emiliano che Eugenia hanno grandi doti performative e una profonda conoscenza della parola poetica, performata a livello vocale. Da qui è iniziato il percorso di ricerca».
Evocare Medea. Dentro il processo creativo
Come avete lavorato sul testo e cosa è diventato?
Andrea: «Per diversi mesi abbiamo fatto lavoro a tavolino, per sviscerare da un lato il senso del testo, dall’altro le sue possibilità timbriche, musicali e ritmiche. Emiliano conosce bene il tedesco e questo ci ha permesso di accedere all’opera originale per capirci qualcosa di più, proprio a livello letterale, della scrittura criptica di Müller, che abbiamo letto nella traduzione italiana di Saverio Vertone. Grazie a Eugenia, in quanto esperta della parola, abbiamo iniziato a lavorare sul suono a partire dai riferimenti metrici del testo. Questo è stato scomposto, per mettere in rilievo gli elementi ritmici, fino a estrarli e isolarli per lavorarli come fossero cellule musicali. Terminata la fase sul testo, siamo passati al lavoro in sala, che ha subito un’accelerazione quando siamo stati selezionati al Bando Biennale College Registi, in cui abbiamo presentato uno studio di 20 minuti. Era il 2024 e oggi è cambiato molto, ma il nocciolo del lavoro è rimasto lo stesso».
Com’è iniziato e come si è sviluppato il processo di messa in scena?
Federica: «Nel periodo dell’analisi dell’opera, quando ci venivano delle suggestioni sceniche, già le provavamo. Questo perché Emiliano e Eugenia rispondono a un testo trasformandolo in ritmo e voce, esattamente come un danzatore racconta una sensazione attraverso il corpo. Spesso dare suono alle parole era il modo più semplice per comprenderlo. Un conto infatti è leggere Müller e un altro è enunciarlo. Piano piano abbiamo quindi dato forma all’idea che volevamo raggiungere, ovvero trasformare un testo poetico in qualcosa che potesse restituire il significato più profondo dell’opera, almeno secondo noi. La musica ci ha permesso di trasformare la parola in materia tridimensionale. Abbiamo inoltre scelto di destrutturare il testo, pur mantenendolo integrale: iniziamo da metà del monologo di Medea, che lo stesso Müllerpone al centro di due grandi paesaggi, per poi tornare alla prima parte. È come se Medea divenisse generatrice di tutto il contorno; come se il suo vissuto facesse scaturire quella visione di mondo e dell’umano. A questo punto abbiamo deciso di non rappresentare Medea, ma di evocarla attraverso una preghiera. L’intuizione nasce proprio in sala, provando a declamare un pezzo alla maniera di una cantilena da salmo. Da qui il titolo Ave Medea, per rimandare all’idea di evocazione del suo spirito capace di farci vedere il mondo».
Andrea: «Lavorando sull’opera ci siamo inoltre sempre più resi conto che, nonostante sia stata scritta tra gli anni ‘40 e gli anni ‘80 del Novecento, è estremamente attuale: parla di guerra, di un’umanità che resiste alla devastazione, di capitalismo sfrenato. Non si tratta dunque di un’operazione museale, in cui non ci riconosciamo, ma di trattare questioni vive e calde. Questo ci ha permesso di affrontare il testo facendolo anche uscire fuori dalla volontà dell’autore, che per quanto lungimirante non poteva aver previsto tutto».
Non c’è dunque alcun personaggio, si torna a una dimensione rituale del teatro e della poesia. Chi sono dunque i due performer in scena?
Federica: «Eugenia e Emiliano sono semplicemente loro stessi, designati a un compito, ovvero quello di evocare Medea. Vestono di fatto il ruolo di sacerdoti laici».
Andrea: «Come nel teatro dionisiaco, sono di fatto dei mediatori che introducono a quella che abbiamo definito “la stanza della tragedia”. Ci si trova a una soglia, mentre Emiliano e Eugenia sono coloro che permettono di accedere a un’altra dimensione. Questo ci ricollega all’origine del teatro, in cui l’interprete non rappresenta un personaggio, ma è un medium, un ponte tra due mondi di senso, tra interno ed esterno. Il pubblico insieme a noi è invitato ad attraversare queste due dimensioni. I perdormer indossano un costume, certo, ma è proprio grazie al costume che assumono un ruolo. È un amuleto: introduce una dimensione magica e ci riporta a Medea, maga e ponte tra mondi, tra barbarie e civiltà, tra magia e ragione».
Federica: «Riusciamo però a non sconfinare nel mistico perché il lavoro è molto concreto e materico, legato allo spazio in cui avviene e a una serie di elementi che rimandano all’oggettività di quel posto. Eugenia e Emiliano sono dunque due individui che aprono porte e permettono di accedere a un lato “oscuro”, non nel senso di tenebroso ma di celato, che si può vedere solo attraverso una manifestazione, in questo caso, di volontà artistica e fuori dall’ordinario».
Andrea: «Il loro strumento principale per farlo è la parola e il suono, che è poi lo stesso dei riti magici e divini, la parola che si fa mondo e di cui loro sono i tramiti».

Oltre la rappresentazione
Molti elementi mi ricordano il vostro ultimo lavoro, x-machine. Come si è voluta quell’esperienza in Ave Medea, cosa resta?
Federica: «x-machine è stato uno spettacolo chiave, uno spartiacque. È estremo, c’è un azzeramento, tutto si sviluppa tramite corpo e musica. È un accadimento. Quello che permea in Ave Medea è la creazione di un paesaggio totale, che non ha solo una concretezza scenica ma è anche un’evocazione, qualcosa che va oltre il visibile».
Andrea: «Resta l’abolizione del personaggio e il suono inteso come manifestazione oggettiva: la musica non rappresenta qualcosa d’altro, la musica è. In Ave Medea abbiamo osato usare questo approccio anche sulla parola».
Federica: «Con il vantaggio di affidarci al verso e alla storia di Medea, che non ha motivo di essere narrata perché la si conosce già. Si tratta di un archetipo capace di restituire ancora uno spaccato sul mondo. Era difficile cadere nella rappresentazione».
Rispetto alla scena, invece, dicevate che rimanda a un’oggettività del paesaggio, a una concretezza, sebbene anch’essa sia evocativa. Si compone di sessanta aste senza microfono. Come è nata questa intuizione e a cosa rimanda?
Andrea: «In origine volevamo microfonare tutte le aste, così che i performer potessero declamare spostandosi nello spazio. Era un’idea in continuità con x-machine, che alternava suono acustico e amplificato: l’unico modo per parlare sarebbe stato raggiungere un microfono, motivo per cui ne servivano molti. Durante le prove, però, abbiamo lavorato per praticità con soli due microfoni, lasciando le altre aste vuote. È stato un momento rivelatore: quelle aste spoglie ci hanno restituito un’immagine potentissima, come funzioni interrotte, oggetti che contengono un uso ma non possono esprimerlo. A quel punto abbiamo iniziato a interrogarle davvero, chiedendoci cosa evocassero e che senso potessero assumere in scena. Ogni sguardo le caricava di nuovi rimandi e sono diventate un elemento scenico molto forte».
Federica: «…sembrano armi, sembrano barricate, sembrano la selva di cui parla Müller, delle pertiche conficcate nello stagno…»
Andrea: «A un certo punto abbiamo capito che un’asta presuppone un microfono, e un microfono presuppone una persona che parla. Se quella persona non c’è,così come non c’è il microfono, allora ciò che manca è una folla intera».
Federica: «Questo ha guidato anche lo sviluppo drammaturgico: ogni asta è una voce che non è stata ascoltata, che non ha potuto parlare. È un rimando diretto al nostro presente e agli scenari di guerra che attraversiamo. Può evocare anche il giornalismo, l’inchiesta, il desiderio di sapere e di trovarsi nei luoghi della devastazione per raccogliere testimonianze. Ma quando ti accorgi che i microfoni non ci sono e che nessuno li usa, ogni asta diventa un’unità muta, sola».
Andrea: «E sono Emiliano ed Eugenia a dare voce alle aste: solo quando collegano il radiomicrofono possono parlare».
Federica: «È diventata una regola precisa che ci siamo imposti. Non è stato semplice, perché ci ha costretti a lavorare sulle transizioni: se puoi parlare solo quando il radiomicrofono si aggancia a un’asta, il movimento si complica e l’andamento dello spettacolo deve misurarsi con una lentezza necessaria e con una chiarezza nello spazio».
Torna dunque la scena intesa come dispositivo, con regole precise di funzionamento, come in x-machine…
Federica: «Il dispositivo è però molto diverso. In x-machine la casualità del gesto di Jacopo generava un mutamento imprevedibile della scena, esisteva una regola di base, ma l’esito era sempre variabile. Qui invece la regola è un’altra: si può parlare solo quando il microfono è sull’asta. In questo caso i performer non subiscono il cambiamento della scena, ma sono loro a produrlo. Sono inoltre gli unici a sapere come finirà, ogni movimento è ponderato: sanno dove arriveranno tutte le aste, pur accettando la quota di imprevisto che l’oggetto porta con sé. Fa parte del nostro modo di lavorare mantenere un alto grado di difficoltà nella gestione della scena: non tutto è controllabile e questa condizione richiede concentrazione assoluta, una presenza totale».
Andrea: «In x-machine, i tre musicisti avevano inoltre un rapporto diverso con le sedie: Jacopo Giacomoni viveva un incontro entropico, un gesto incosciente che mutava la scena; Federica Furlani non poteva toccarle; Marco Puzzello rappresentava invece la resistenza, la stasi, e quindi si sedeva. In Ave Medea, invece, i performer modificano il paesaggio in modo consapevole».

Intorno alla performance: materiali ed esplorazioni
Quali sono stati gli altri riferimenti o studi che hanno arricchito la vostra ricerca?
Federica: Abbiamo letto la biografia di Müller, essenziale per conoscerlo e capirlo. Tra i riferimenti artistici, invece, Il cielo sopra Berlino di Wim Wenders è stato centrale. I suoi angeli, come i nostri performer, sono un tramite, un legame tra terra e cielo. Quel film, sospeso tra finzione e documento, restituisce un’immagine straordinaria della città di Berlino: nella devastazione del dopoguerra riesce a trovare una delicatezza unica. Inoltre abbiamo deciso di fare un viaggio a Berlino, per capire ciò che Müller raccontava. Oggi è molto diversa, certo, ma attraversarla e vedere il Muro è stato fondamentale: Müller veniva da Berlino Est, e ritrovarci davanti a quella linea è stato un passaggio necessario, che in Ave Medea si è tradotto nell’uso della techno: una presenza musicale, lontano dalla sacralità dell’evocazione ma con una sua ritualità, che abbiamo studiato. Anche il brutalismo, la luce e l’estetica berlinese sono stati fondamentali. Sono suggestioni che mi hanno sempre attratta e che qui sono diventate una vera fonte d’ispirazione».
Andrea: «Io c’ero già stato nel 2003: rivederla nel 2024 è stato straniante. La East Side Gallery oggi è iper-turistica; vent’anni fa era piena di erbacce, la attraversavi quasi da solo. Oggi localini e cocktail bar ovunque. Quella di oggi è una Berlino che si confronta con un capitalismo sempre più pervasivo. Siamo andati anche a vedere un ex centro occupato: ne restano solo le mura, tenute come feticcio per i turisti. Attorno hanno costruito un centro commerciale e un lounge bar. Ci è sembrato un luogo violato. Se ha scioccato me, dopo soli 20 anni, immagino cosa potrebbe pensare Müller».
Federica: «Sembra una città dei fumetti in cui i “cattivi” hanno vinto e scrivono i loro nomi in lettere cubitali. La disobbedienza però resiste, c’è ancora una cultura alternativa, sebbene oggi sia soffocata. Lì ho capito meglio Müller, Wim Wenders, Pina Bausch e molti artisti tedeschi che hanno attraversato la Storia. Mi si sono chiarite molte cose».
Nella stanza della tragedia
La studiosa e ricercatrice Lucia Amara ha affiancato a un certo punto il vostro percorso di ricerca. Che ruolo ha avuto e in che modo il suo sguardo ha arricchito il vostro lavoro?
Federica «Lucia Amara è stata la nostra tutor durante l’ultima residenza svolta ad Ateliersì. È stato importante averla con noi in sala, perché ci ha permesso di approfondire alcuni aspetti che eravamo riusciti a raggiungere attraverso la forma scenica, ma a cui non avevamo ancora dato una definizione teorica. Lucia ci ha dato un supporto in tal senso, mettendosi in ascolto e donandoci suggestioni e riflessioni. Ci ha permesso di reinterpretare teoricamente i nostri stessi elementi scenici. È proprio grazie a una sua intuizione che abbiamo approfondito il concetto di “stanza della tragedia”, dando espressione al luogo rituale che avevamo creato».
Che rapporto instaurare dunque con il pubblico?
Federica: «Può sembrare banale, ma non avrebbe senso evocare qualcosa senza testimoni. Senza lo spettatore, l’atto scenico non ha senso. Fin dall’accoglienza si capisce che non si assisterà a qualcosa che intrattiene da lontano, ma che si sarà parte di un attraversamento. Il pubblico viene invitato a entrare in quello spazio-tempo in un certo modo, con una certa postura. È appunto quel luogo-altro che abbiamo chiamato “la stanza della tragedia”, l’ambiente in cui si verifica l’atto. È una manifestazione potente, che non lascia fuori nessuno».
Andrea: «In altre parole, chiediamo allo spettatore di essere presente, di riconoscersi come testimone, di assumersi la responsabilità dello sguardo. Di stare per un’ora insieme a noi a guardare nella stessa direzione».


