La terza edizione di Colpi di Scena – Sguardo nel Contemporaneo, organizzata da Accademia Perduta/Romagna Teatri e ATER Fondazione, ha rinnovato un gesto politico e poetico insieme: offrire uno spazio visibile, concreto, al corpo vivo di una parte del teatro italiano.
Sedici nuove produzioni, di cui undici in anteprima o prima nazionale, hanno animato a Forlì quattro giornate dense, restituendo la varietà di linguaggi che compone oggi la scena contemporanea.
Drammaturghi, registi, interpreti, operatori e critici: una comunità in movimento che rimette in circolo saperi e mancanze.
Nel teatro, si sa, il corpo è sempre testimonianza: del tempo, della fatica, della lingua.
Dal 22 al 25 settembre 2025 è apparso come un arcipelago di presenze differenti, ora scarnificate, ora eccessive, ora liriche o burattinesche.
A una platea di operatrici e operatori teatrali provenienti da tutta Italia – segno di una rete viva, curiosa, nonostante le fragilità strutturali del settore, oggi più che mai – e a un pubblico che ha potuto assistere gratuitamente a tutti gli appuntamenti è stato offerto un mosaico di nuove produzioni affatto difformi per tematiche, linguaggi ed efficacia.
Questo articolo, lontano da ogni pretesa di esaustività, si concentra sui corpi di Colpi di Scena attraverso tre creazioni che lo trattano scenicamente da prospettive molto diverse, ed è complementare all’analisi di Romeo Pizzol dedicata alle parole del e nel Festival.
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Carrozzeria Orfeo – Misurare il salto delle rane
Nella nuova creazione di Carrozzeria Orfeo, il corpo è il primo dispositivo drammaturgico e la parola il suo riflesso sensibile.
Il testo – appena pubblicato da Cue Press – conferma la scrittura di Gabriele Di Luca come una delle più riconoscibili nel panorama teatrale italiano contemporaneo: una lingua tesa, carnale, che vive di ossimori, di contraddizioni, di umori corporei. È un testo che sembra nascere già dalla voce, che pretende un corpo per esistere.
Il realismo materico della scenografia – un interno quasi naturalistico, segnato da superfici usurate, da un’aria che sa di realtà vissuta – viene subito abitato da tre presenze che ne amplificano e al contempo incrinano la verosimiglianza. Le interpreti non si limitano a “rappresentare”: attraversano, deformano, incarnano il linguaggio stesso, come se ogni parola dovesse trovare la sua muscolatura per diventare viva.
La regia traduce l’ironia e il cinismo, il lirismo e la desolazione del testo in una partitura fisica e vocalica oltremodo precisa. Ogni gesto sembra misurare un peso, un salto, un arresto. È un teatro dove la parola non si posa sul corpo, ma lo attraversa, lo deforma, lo modula. In questo senso, Misurare il salto delle rane si colloca nella lunga tradizione di un teatro che ha fatto del legame tra parola e corpo il proprio centro vitale.
Da Antonin Artaud, che nel Teatro della crudeltà voleva restituire alla parola «il potere incantatorio e magico del grido», a Jerzy Grotowski, per il quale la voce era un’estensione fisica, una danza interna del corpo, fino a Carmelo Bene, che demoliva il linguaggio per farne «carne fonetica», il teatro del Novecento ha continuamente interrogato la possibilità di incarnare la parola.
Carrozzeria Orfeo sfiora questa linea con un approccio post-contemporaneo potremmo dire, nel quale il corpo non distrugge il testo ma lo trasfigura, con apparente noncuranza: la parola diventa ritmo, spasmo, contrazione.
Le tre straordinarie attrici si muovono come strumenti musicali che suonano la stessa partitura con timbri diversi – il dolore, l’eccesso, la tenerezza – restituendo al linguaggio la sua origine prelogica, corporea. Non parlano “di” qualcosa: sono attraversate dal dire, lo trasformano in muscolo, in sguardo, in respiro.
La carne, qui, non è mai un involucro. È una lingua.
In questa concretezza, Carrozzeria Orfeo rimane fedele alla propria poetica: un teatro che si nutre di umanità estrema, di ironia e abisso, in cui l’amarezza diventa materia scenica e il corpo il suo unico traduttore possibile.
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Masque Teatro – E di tutti i volti dimenticati
In scena, una casa.
O, forse, solo la sua ombra: una poltrona, un tavolo, una pianta, una finestra.
Lo spazio appare come dopo un’esplosione, sospeso in una polvere che ricorda l’America malinconica di Edward Hopper ma attraversata da un’eco post-atomica. Dentro questo luogo abita una Figura spezzata e spiazzante, possente e posseduta.
Masque Teatro costruisce, come sempre, un’esperienza più che una narrazione.
Se nel precedente Voodoo il percorso della Figura aveva una netta traiettoria da A a B, qui il movimento è interno, circolare, fatto di micro-oscillazioni. Assistiamo non tanto a un’azione quanto a una condizione: la prigionia del corpo nella memoria, nel tempo, nella voce.
La vocalità dell’interprete è ingabbiata, intermittente. Le parole si rompono, si piegano, si trasformano in suono animale. Quando la figura si avvicina all’acqua sul tavolo, sembra tendere verso un’impossibile purezza, una promessa di lenimento che non arriva mai.
È in questo scarto, tra tensione e impossibilità, che la scena si apre come una ferita percettiva: non più teatro di rappresentazione, ma di sensazione, nel senso profondo che Gilles Deleuze attribuiva a Francis Bacon.
In Francis Bacon. Logica della sensazione, Deleuze scrive che il pittore “presenta relazioni non illustrative e non narrative, e tanto meno logiche”. È la stessa condizione che Masque Teatro pare ricercare: lo spazio scenico come una tela che non racconta ma espone, che non descrive ma fa vibrare la materia del corpo.
La figura in scena sembra emergere da una “sfocatura dei corpi”, quella deformazione che, per Deleuze, non distrugge ma libera la forma, restituendole un’intensità nuova, una verità che pulsa sotto la superfice del visibile.
Così, il corpo di Eleonora Sedioli non è mai figura compiuta, ma campo di forze, attratto e respinto dal vuoto, attraversato da correnti di memoria e di voce. In questo modo, Masque Teatro sembra dare corpo a quello “spirito animale dell’uomo” di cui parla Deleuze: “spirito che è nel corpo, soffio corporeo e vitale”. La voce spezzata, i movimenti che si interrompono, il tremore della luce – tutto diventa soffio, moto interno, pulsazione invisibile.
È una linea che attraversa la storia del teatro del Novecento: vien da pensare a Tadeusz Kantor, che faceva del corpo dell’attore un residuo di memoria e materia. Anche per Masque il corpo pare essere il punto di collisione fra la vita e la sua sparizione. L’interprete non rappresenta la sofferenza: la attraversa, la lascia agire.
Alla fine, una frase: «Aiutatemi. Aiutatemi».
Non c’è catarsi, non c’è redenzione.
Noi siamo testimoni, non spettatori.
Il corpo, qui, è ciò che rimane quando tutto il resto è cenere. Nonostante tutto.
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Les Moustaches – La Fame
Una scena barocca, teatrale fino al parossismo: velluti, baldacchini, stoffe che si aprono come sipari di un sogno popolare. Tutto in La Fame è eccesso e misura insieme, carnevalesco e sacrale, come in un affresco di opulenza rovesciata. In questo teatro nel teatro, i due meravigliosi interpreti di Les Moustaches si muovono come marionette viventi, oscillando tra il Decameron pasoliniano e la ferocia del teatro popolare, dove la fame non è soltanto tema ma gesto, materia, linguaggio fisico.
La fame del titolo è concreta e metafisica: fame di cibo, di amore, di senso, di Dio. “Dio, credo abiti in un posto pieno di cose da mangiare”, dice uno dei personaggi. La battuta risuona come un proverbio rovesciato, una teologia del bisogno: il divino viene immaginato come sazietà assoluta, contro la miseria e la voracità umana. Ma qui la fame è anche fame di scena, di parola, di pubblico — quella tensione che trasforma ogni atto performativo in gesto comunicativo: teatro con e per le persone, sideralmente distante da ogni elitario intellettualismo.
La recitazione antinaturalistica, di un’eleganza burattinesca, fa del gesto il luogo del pensiero. Ogni piega del corpo è una variazione di stato emotivo; ogni scarto, un cambio di temperatura nella relazione tra i due. In questa costruzione, i corpi diventano strumenti a corda: risuonano, si tendono, vibrano, si spezzano, come nelle antiche farse o nei misteri medievali, dove la voce era proiezione del corpo e il corpo protesi della voce.
La sapienza attoriale di Les Moustaches si radica proprio in questa genealogia: nel corpo-voce del giullare, del comico dell’arte, del buffone tragico che attraversa i secoli. Come gli attori della Commedia dell’Arte del secondo Cinquecento, i due interpreti abitano la scena non come personaggi ma come corpi parlanti, capaci di creare il mondo attraverso l’articolazione fisica del testo.
L’eco di questo corpo-voce arcaico e vivissimo attraversa anche la grande tradizione del teatro popolare europeo: dalle sacre rappresentazioni umbre e toscane fino ai lazzi dei zanni e ai canti dei cantastorie. È un teatro che nasce dalla terra e dal ventre, che conosce la fame non come allegoria ma come condizione originaria. Così, in La Fame, la parola è sempre fisica, mai concettuale; vibra come un suono gutturale, una fame che si dice attraverso la bocca, le viscere, le mani.
C’è in questa drammaturgia una genealogia del grottesco che passa da François Rabelais a Teofilo Folengo, da Gargantua e Pantagruel al Baldus, ma anche un’eco del presente più duro: la fame reale dei profughi, quella che abita le cronache di Gaza e di altri confini del mondo. I corpi sulla scena — e i loro appetiti, le loro mancanze — diventano così la rappresentazione materiale della diseguaglianza, ma anche della sopravvivenza.
Le mille invenzioni sceniche restano interamente teatrali, inscritte nei codici dell’arte scenica: stoffe, botole, luci, corpi, voci. È il teatro stesso che digerisce e trasforma la fame in linguaggio, in rito collettivo, in corpo condiviso.
L’unico appunto riguarda la chiusura, un poco sovraccarica di finali multipli: il lavoro potrà certo rafforzarsi nell’essenzialità, nell’arte di lasciare sospeso il desiderio.
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Epilogo – Corpi che restano
Colpi di Scena 2025 ha offerto un’immagine complessa del corpo nel teatro di oggi.
Corpi fragili e ironici, vulnerabili e precisi, esposti al rischio della scena. Ogni spettacolo ha mostrato, in modi diversi, che non esiste pensiero senza presenza: la materia viva del corpo rimane il punto di partenza di ogni gesto teatrale.
In un tempo in cui la comunicazione si sposta sempre più verso il digitale, il Festival ha ricordato che il corpo resta il principale luogo dell’esperienza. Il teatro, nel suo essere incontro tra presenze, continua a interrogare ciò che resta concreto, condivisibile, umano.
Le giornate di Forlì hanno costruito una comunità temporanea fatta di lavoro e di ascolto reciproco. Artisti, operatori e spettatori hanno condiviso uno spazio di attenzione, dove la scena diventava laboratorio di relazione e non semplice vetrina.
In questa prospettiva, il corpo è apparso non solo come tema ma come strumento di conoscenza: una forma di pensiero incarnato. Gli spettacoli hanno mostrato come la scena, quale sia lo stile che incarna, resti fondata sulla presenza fisica e sulla responsabilità dello sguardo.
Colpi di Scena ha così confermato la necessità di un teatro che metta al centro la materialità dei corpi, la loro vulnerabilità e potenza comunicativa. Un teatro che, pur consapevole dei propri limiti, continui a praticare l’incontro fra umani.
Dire grazie, almeno.


