Elogio del margine. Note sul Festival Voci dell’Anima 2025

bell hooks

 

La marginalità è un luogo radicale di possibilità, uno spazio di resistenza.

Questa marginalità, che ho definito come spazialmente strategica per la produzione
di un discorso contro-egemonico, è presente non solo nelle parole,
ma anche nei modi di essere e di vivere.

Non mi riferivo, quindi, a una marginalità che si spera di perdere – lasciare o abbandonare – via via che ci si avvicina al centro, ma piuttosto a un luogo in cui abitare,
a cui restare attaccati e fedeli,
perché di esso si nutre la nostra capacità di resistenza.

Un luogo capace di offrirci la possibilità di una prospettiva radicale
da cui guardare, creare, immaginare alternative e nuovi mondi.

[ bell hooks, Feminist Theory: From Margin to Center, 1984 ]

 

C’è una politica dello sguardo che si rinnova ogni volta che le arti incontrano il margine.

Non la marginalità come periferia del discorso dominante, ma come luogo epistemologico e affettivo, come “spazio di resistenza” – direbbe bell hooks – da cui ripensare i linguaggi, i corpi, le relazioni.

Voci dell’Anima 2025 si è collocato in questo interstizio: è un Festival, quello riminese, che non cerca di “portare al centro” le voci marginali, ma di riconfigurare il centro stesso come una costellazione instabile di margini che si toccano.

Politicamente, ciò significa smascherare la presunta neutralità della scena e del discorso artistico; filosoficamente, implica un rovesciamento fenomenologico della percezione: non si guarda più “verso” il margine, ma da esso.

Semioticamente, significa che ogni segno – gesto, suono, luce, parola – si iscrive in una tensione tra visibilità e sparizione, tra il dire dal bordo e l’essere il bordo stesso.

Di seguito alcune brevi note sugli spettacoli del Festival che, a mio modo di vedere, hanno con più chiarezza incarnato tale prospettiva, da me arbitrariamente individuata come fil rouge di questo piccolo discorso.

Senza alcuna pretesa di esaustività, si tratta ora di inscrivere frammenti di poetiche, linguaggi e tematiche, invero affatto distanti, in un possibile noi più grande.

Proviamo.

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ph Dino Morri

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Rosaria. Lingue madri e ombre amate

Nel lavoro di Davide Iodice, che a mo’ di manifesto di intenti e poetica ha inaugurato la ventitreesima edizione del Festival, la figura di Rosaria si staglia come icona di una devozione laica, un corpo che parla da un confine geografico e linguistico.

L’atto di nominarsi e di raccontarsi, nella drammaturgia di Iodice, non è mai solo autobiografico: qui la marginalità si fa voce e fonema, l’idioma che Rosaria abita è un corpo plurale, lingua che si apre e si frantuma un po’ come quella di Amelia Rosselli, poetessa “fuori asse” che attraversava le parole come si attraversano i fantasmi.

In questa stratificazione, ogni deragliamento linguistico diventa luogo di resistenza: non lingua inferiore, ma spazio dell’affettività e della sopravvivenza.

Iodice, insieme all’interprete, sembra costruire una grammatica del respiro: il linguaggio che si spezza è ciò che consente alla voce di farsi carne.

La scena è attraversata da ombre e presenze residuali.

E una sagoma disegnata su un cartone rimanda alla circumductio umbrae: il gesto di tracciare il contorno dell’amata assente, gesto mitico che – come non pensare a Plinio il Vecchio – avrebbe dato origine all’arte del ritratto. Dunque della rappresentazione.

Nel suo farsi memoria di un corpo perduto, questa ombra diventa sineddoche del teatro stesso: un dispositivo che ricrea la presenza a partire da una ineludibile mancanza.

Iodice lavora, registicamente, come ai margini dell’art brut: un’arte che non aspira alla pulizia asettica della forma, ma alla sopravvivenza del senso.

Ogni segno sulla scena – un sussurro, una luce che indugia, una sillaba che ritorna – è traccia di un passaggio, di una permanenza impossibile.

Come scrive hooks, “restare fedeli al margine” non è un’esclusione ma una scelta etica: qui, il teatro non salva la marginalità, ma ne accoglie la lingua e la trasforma in canto, in “ombra amata”.

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opera di Hannah Höch

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St(r)ati — Il corpo come collage, o della precisione del disordine

La coreografia di Veronica Parlagreco è una piccola ma netta lezione di (s)composizione.

St(r)ati mette in atto un dispositivo del corpo come stratificazione, come testo aperto e reversibile.

La danzatrice abita lo spazio come una figura in costruzione: la sua presenza è fatta di linee interrotte, rotazioni parziali, equilibri mobilissimi.

L’immagine che ne deriva è quella di un collage vivente, simile alle opere di Hannah Höch, la più radicale delle dadaiste berlinesi, che con forbici e colla ricomponeva frammenti di corpi femminili sottratti ai rotocalchi.

Come Höch, Parlagreco lavora sulla frizione tra disarticolazione e armonia.

Ogni gesto è una smorfia che scardina la sintassi del corpo femminile imposto dallo sguardo patriarcale.

Tuttavia, la sua coreografia non cede mai alla didascalia del messaggio: la precisione del disordine ne rivela la potenza conoscitiva: ogni frammento contiene una memoria, ogni articolazione è una forma di pensiero.

Come direbbe Luce Irigaray, la carne “parla in più voci”, e la danza di Parlagreco è la messa in scena di questa molteplicità non conciliata.

È il corpo che pensa, che resiste, che genera senso nella propria molteplicità di significanti.

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ph Dino Morri

Quell’attimo di beatitudine. Ironia e quartieri dell’anima

Nello spettacolo di Christian di Filippo l’ironia si fa strumento di conoscenza, non di socratica distanza.

È un’ironia da dentro, non corrosiva ma partecipe, impastata di presenza e malinconia.

Il protagonista è una sorta di calviniano Palomar di quartiere, osservatore del quotidiano che trasforma la microfisica dell’esperienza in interrogazione etica.

La drammaturgia avanza per scarti, deviazioni, piccole illuminazioni: il pensiero non si dispiega in linea retta, ma si fa gesto, pausa, esitazione.

Questo ritmo sincopato costruisce una fenomenologia dello sguardo laterale: margine come postura conoscitiva.

Nel suo oscillare tra confessione e ironia, Di Filippo costruisce una figura che si colloca tra il narratore e il testimone.

Il linguaggio – semplice, finanche quotidiano, ma senza posa attraversato da fenditure poetiche – diventa lo spazio di un’intimità esposta, dove il soggetto si apre alla possibilità del ridicolo come forma di verità.

Quell’attimo di beatitudine rifiuta, apparentemente, la retorica dell’individuo performativo: afferma la dignità del banale, della lentezza, del pensiero che inciampa.

Nel margine tra il comico e il tragico, di Filippo trova un’umanità possibile: un teatro che, per riprendere hooks, non si allontana dal margine, ma ne fa il proprio punto di vista etico.

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ph Dino Morri

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Dive. Icone infrante e realismo magico

In poco più di dieci minuti, l’opera di Collettivo Nanouk condensa una potenza iconografica che ricorda la pittura di Achille Funi e del Realismo Magico: figure sospese tra ieraticità e intimità, corpi che sono al tempo stesso simbolo e materia, qui e altrove, ora e allora.

La e il performer attraversano le immagini per infrangerle dall’interno: la loro presenza è un corpo-icona che si sfalda davanti a noi, un movimento di appropriazione e rifiuto che si fa scrittura coreografica.

La scena diventa così un archivio di simulacri in dissoluzione, in continua alternanza di immobilità e guizzi improvvisi.

Per dirla con Rilke, ogni figura “si leva per un istante e ricade”, rivelando la propria fragilità.

Questa oscillazione tra fissità e moto è la cifra forse più lampante della performance: la staticità è il contrappunto dell’azione, così la figura diventa ritmo.

Esso è, ancora, un gesto hooksiano: il margine come sguardo che rifiuta la complicità col centro, che “vede dal bordo” e così reinventa la visione.

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ph Dino Morri

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Non è stata la mano di Dio. Teatri del Sud e teologie del margine

Corrado la Grasta si inserisce a pieno titolo nella tradizione dei narratori pugliesi, ormai vivissima.

Il titolo rovescia la teodicea: “non è stata la mano di Dio” significa che non c’è più un ordine, né una giustificazione.

È l’uomo – e il teatro – a farsi responsabile.

La marginalità, in questo contesto, non è solo geografica (il Sud, la provincia), ma ontologica: è la condizione di chi continua a cercare un senso nel vuoto.

Dentro questa ontologica essenzialità vibra una programmatica artigianalità teatrale, un sapere concreto e antico che riconduce la scena al suo statuto originario di mestiere: un’arte del corpo e della voce, forgiata nel tempo e soprattutto nella relazione.

La dimensione educativa e comunitaria non è accessoria ma strutturale:, in questo teatro: la Grasta sembra rivolgersi non solo allo spettatore, ma anche a una generazione che impara a “dire il mondo” attraverso il teatro.

Tornando a hooks, “dal margine possiamo ancora immaginare nuovi mondi”: la Grasta lo fa, trasformando la scena povera in atto pedagogico e politico, dove l’arte diventa esercizio di libertà condivisa.

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ritratto di Ingeborg Bachmann

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Il canto sulla polvere. Invocazione a Ingeborg Bachmann. Barocco e dissolvenza

In Il canto sulla polvere, Alessandra Chieli porta in scena un monologo interiore che si dispiega come un corpo barocco: un sistema complesso affollato di segni, voci, luci, superfici sonore che si intrecciano in una polifonia emotiva.

La drammaturgia si costruisce per accumuli e subitanee rarefazioni: il corpo-voce genera immagini che si moltiplicano fino a dissolversi nel testo spettacolare.

La figura scenica di Chieli, per intensità e metamorfosi, richiama la consistenza attorale di Elena Bucci: la voce come corpo, il corpo come eco.

Le reiterate, repentine variazioni creano un paesaggio percettivo molteplice: la scena è barocca non per ornamento ma per struttura cognitiva.

Come nella pittura seicentesca, la proliferazione dei segni e il loro accumulo sono condizioni stesse della visione.

La parola di Ingeborg Bachmann – corpo centrale di questo lavoro – diventa materia viva, non citazione ma invocazione.

La polvere del titolo è la sostanza del margine: ciò che resta, ciò che sopravvive come eco, impalpabile come la poesia.

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Conclusione. Restare fedeli al margine

Voci dell’Anima 2025 non costruisce un discorso sul margine: lo pratica, lo abita, lo trasforma in metodo.

In ciascuno dei lavori presentati, pur nella difformità di temi e tono, forma e densità, la marginalità si rivela non come privazione ma come metodo di conoscenza.

Seguendo ancora e ancora la lezione di bell hooks, restare nel margine significa restare nella possibilità: lì nasce una nuova politica del sensibile.

Il margine, allora, non è un confine ma un principio generativo — come l’ombra disegnata dell’amato, come il frammento di collage, come la voce che risuona nella polvere.

In tempi di omologazione e di stanchezza del linguaggio consumato, Voci dell’Anima ci ricorda che il teatro, per essere vivo, deve restare fedele al proprio margine: lì dove bellezza coincide con resistenza.

Dire grazie, almeno.

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Maurizio Argan e Alessandro Carli – ph Dino Morri

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