Le parole di Colpi di Scena 2025

Uno spettacolo italiano - Francesco Bondi

 

La parola è al centro della nostra società. Concretizza il linguaggio, si fa luogo di significati, costruisce dialoghi e riflessioni. Per citare Georg Wilhelm Friedrich Hegel dà al pensiero la sua esistenza più alta e più vera.

Ma si può vedere una parola?

A teatro sì.

Basti pensare al “teatro mentale” mallarmeano, basato unicamente sull’onnipotenza evocativa della parola. Ma anche alla capacità della parola di farsi corpo, gesto, ritmo, misura.

Sono stato a Colpi di Scena, vetrina di teatro contemporaneo organizzata da Accademia Perduta. Ho visto spettacoli di parola e ho notato attenzione, cura, ricerca nei testi, che ancora oggi rappresentano il punto di partenza per molte nuove produzioni.

Questo è vero per Bianco e Ombrelloni, di cui è già stato scritto da Michele Pascarella in due precedenti articoli.

Dunque mi concentrerò su altre opere in cui ho notato l’emergere di questo tipo di lavoro.

La parola agli spettacoli.

.

Pasta Madre – ph Francesco Bondi

Pasta madre

Questo spettacolo, di Sara Allevi, è teatro di narrazione, monologo, biografia. In esso la parola è utilizzata per la sua capacità di evocare periodi storici, ambienti particolari, emozioni, ricordi.

L’attrice attinge dal proprio vissuto personale, recuperando e ricostruendo la storia della nonna Fernanda, nata e cresciuta nel panificio di via della Verna, nel quartiere di Montesacro a Roma.

La narrazione comincia nel forno, ricostruito realisticamente, dove Sara impasta e racconta. Vediamo la farina e l’impasto, ma non ci vengono presentati gli odori o i sapori del forno, perché lo spettacolo non si gioca su forme sinestetiche, ma sceglie di affidarsi alla forza evocativa della parola, costruendosi attorno ad alcune parole chiave.

La prima è pasta madre, ossia l’impasto caratterizzato da una certa presenza batterica, che, per essere mantenuta, deve essere alimentata e movimentata quotidianamente. Entriamo da subito nell’atmosfera lavorativa, in una dimensione temporale che vede nella fatica quotidiana il filo che collega passato e presente.

La seconda è la parola pane, in grado di evocare sapori e odori che a loro volta riportano la protagonista indietro nel tempo, al pari della madeleine di Proust. Quando la narrazione si sposta nel passato entra in scena Fernanda, nella forma di una testa-pupazzo, a cui presta il corpo Sara Allevi.

Il racconto si dipana attorno a Fernanda, una bambina che vede interagire il suo piccolo mondo con i grandi eventi della Storia. In questo ambito compaiono altre parole chiave: GIL (Gioventù del Fascio Littorio) e tessera annonaria, che riportano al periodo fascista e a quello della guerra e dei razionamenti alimentari. Sono parole tecniche, inequivocabili, lontane. La loro comparsa sancisce un tuffo netto nella dimensione storica, legando lo spettacolo alla volontà di farsi memoria e testimonianza.

Il flashback aperto sull’infanzia si chiude drammaticamente con l’assalto al forno da parte delle donne del quartiere, che vengono sterminate dai tedeschi di guardia alla struttura. Sara conclude il racconto esplicitando la sua parentela con Fernanda e facendo ascoltare una registrazione della voce della nonna. Una piccola, vivissima, significativa, conclusiva incursione della realtà in scena.

.

Uno spettacolo italiano – ph Michele Lapini

.

Uno spettacolo italiano

Un’opera di e con Niccolò Fettarappa, che ripropone un formato vicino alle sue precedenti creazioni, questa volta affiancato nella scrittura, e in scena, da Nicola Borghesi, membro fondatore di Kepler 452.

Entrambi accomunati da una forte identità politica, i due attori e autori costruiscono un’opera satirica che parte con la premessa di offrire uno spettacolo “di destra”.

Iniziano con l’inno di Mameli, la lettura di un proclama ministeriale e procedono a scegliere in corso d’opera gesti, testo, contenuti. La creazione teatrale si fa oggetto della rappresentazione. La scenografia viene tolta dagli imballaggi, lo spazio scenico viene definito (è delimitato da una motovedetta giocattolo della guardia costiera), e si spacchetta un busto del sottosegretario di stato.

A partire dalla parola, nello specifico da quell’insieme di parole, frasi fatte e modi di dire che nell’opinione comune appartengono alla destra politica, si costruiscono una serie di situazioni che dal quotidiano virano verso il surreale, la caricatura, il parossismo comico.

Viene in mente subito Giorgio Gaber, con le sue canzoni piene di parole, come Destra sinistra, un brano in cui elenca i luoghi comuni legati ai due schieramenti, facendo ironia sulla perdita di significato e di valori dei movimenti politici italiani.

Ma, se la posizione di Gaber appare distaccata, quasi protesa verso qualcosa di eterno, in un mondo di ideali perduti, Uno spettacolo italiano si declina diversamente. I due autori incarnano ansie proprie delle nuove generazioni, una posizione distaccata non appare possibile. Tutto determina un coinvolgimento estremo, totalizzante, dell’individuo, che si riassume in un brusco scarto in una direzione (la destra) o nel suo opposto (la sinistra), che però si rivelano più simili di quanto si possa pensare.

Ad esempio la frase “Noi siamo in piedi dalle quattro del mattino…” che identifica e distingue con un certo snobismo la classe dei sani lavoratori dai perditempo di sinistra, viene usata da Nicola Borghesi per far nascere l’imitazione di un predappiese nostalgico e iroso. L’imitazione, però, si ribella, assume vita propria, imita a sua volta l’attore e finisce per prendere possesso del suo corpo.

Un conflitto interno permea tutto lo spettacolo, tra quel che viene detto e quel che si vorrebbe dire.

La parola politica, ripetuta allo stremo, prende più volte possesso dei corpi dei due autori e li muove contro la loro dichiarata volontà, alzando il braccio in un saluto romano, impugnando un mitra per sparare sulla folla, trasformando uno dei due in un carabiniere iper-violento.

Fettarappa e Borghesi procedono con l’intento di specchiare, nei loro specchi deformanti, l’Italia di oggi e il suo linguaggio. Un linguaggio che, a detta di Niccolò Fettarappa è strumentalizzato dalla destra politica che, sta portando avanti una guerra di parole con la ri-semantizzazione di determinati termini: Patria, confine, sicurezza, territorio, difesa, nazione, sangue.

Conviene dunque diffidare di tutte le parole, come suggeriva Paul Valery, parlando, anche lui, di un continuo processo di nuova semantizzazione?

Lo spettacolo dà una risposta cupa, l’atmosfera ironica cede il posto al dramma ed è la morte che ha l’ultima parola.

Una morte politica, imposta, strumentalizzata, anche lei di destra.

.

J.T.B. – ph Francesco Bondi

.

J.T.B.

In questo lungo testo, atto unico di Lorenzo Garozzo, diretto da Massimiliano Burini, la parola prende la forma massiccia e monumentale del monologo. Non uno, ma una serie, uno dopo l’altro, in bocca ai cinque protagonisti, che si raccontano e si svelano, come i personaggi delle antiche tragedie nel momento dell’agnizione.

Raccontano di sé stessi e della loro infanzia, del rapporto coi genitori e dei traumi, ma soprattutto parlano della ricerca e del conseguimento della celebrità.

Una parola ricorre in tutti i monologhi, una parola che li lega tra loro: J.T.B.

È il nome di un cantante famoso, immaginario, a cui tutti sono legati. I cinque personaggi, infatti, sono: il suo agente, il giornalista che ha trasmesso in diretta la sua morte, un fan megalomane, la madre e un anziano che strumentalizza la figura di J.T.B. in un discorso demagogico per diventare presidente del circolo del quartiere.

Tutti loro si rivelano persone ciniche, egocentriche, senza scrupoli. Corrotte dalla ricerca ossessiva della fama, o della vendetta, nel caso della madre che interviene nel finale, non come deus ex machina, ma come angelo sterminatore, facendo tabula rasa di tutti e di tutto.

Lo spettacolo vuole dimostrare la verità dell’assioma di Andy Warhol “Nel futuro ognuno sarà famoso al mondo per quindici minuti”, indagandone le diramazioni sociali e relazionali e muovendo una critica allo star system che pone sotto i riflettori il nulla.

La parola assume un valore relazionale e anti-relazionale. Il gioco è quello di usarne una, J.T.B., per legare tra di loro le varie storie, ma allo stesso tempo ne vengono usate tante per mostrare il vuoto delle relazioni che erompe dai fitti discorsi dei personaggi.

In scena c’è una platea, rosse le poltrone, rosso il tappeto che la attraversa, rosse le rose gettate a terra. Fasci di luci strette vincolano gli attori a pochi movimenti e poche zone e gettano la gran parte dello spazio scenico nell’ombra, evocando analogie con aldilà ultraterreni, forse infernali. Sicuramente esasperando ancora di più il senso di totale isolamento di ciascun individuo.

Lo spettacolo termina sulle note della canzone My way, una scelta molto in linea con la tematica. My way, infatti, è la riscrittura di una canzone francese di Jacques Revaux cantata da Claude François. L’originale si intitola Comme d’habitude e parla della routine vuota e deprimente di un uomo la cui relazione di coppia è diventata una prigione di solitudine e incomunicabilità.

,

Scatenare incendi – ph Simone Galli

.

Scatenare incendi

Pier Lorenzo Pisano si occupa di cinema e di teatro. Il suo ultimo progetto Scatenare incendi raccoglie in sé il linguaggio di questi due mondi. Si tratta infatti della prima puntata di un’opera teatrale in cinque episodi (Nelle puntate precedenti), pensati per essere rappresentati sequenzialmente, scritti da un team di giovani drammaturghi e sceneggiatori.

L’intento di voler conciliare il teatro con l’esigenza, sempre più pressante, di contenuti seriali non è nuovo.

Si poteva considerare una narrazione teatrale seriale già la tetralogia che andava in scena durante le Grandi Dionisie nell’Atene antica, oppure la saga epica de L’anello del Nibelungo di Richard Wagner.

Tuttavia, in un panorama sociale culturale più recente, si ritrovano veri e propri esempi di ibridazione teatro-televisiva, come le opere del regista argentino Rafael Spregelburd o, in Italia, i progetti Be Legend di Teatro Sotterraneo, 6 Bianca di Serena Sinigaglia e la Tragedia Endogonida della Societas Raffaello Sanzio.

Nelle puntate precedenti si inserisce in questo filone, esplorando il rapporto tra l’uomo e la realtà che abita, intesa come il frutto di un percorso storico e temporale. Un rapporto che viene letto e interpretato, anche registicamente, a partire dal meccanismo di sospensione narrativa e di riassunto mutuato dai media televisivi.

Chiarisco.

La costruzione verbale “Nelle puntate precedenti…” è un prodotto della serialità televisiva, che ha la necessità di fare il riepilogo della storia all’inizio di ogni nuovo episodio, per chiarire la situazione allo spettatore occasionale. Questa frase, che ormai è nelle orecchie di tutti, se applicata non ad una storia di finzione, ma alla storia personale, reale, di un individuo o di un luogo, può agire come grimaldello, scardinare il momento presente e interpretarlo alla luce di tutto ciò che ha portato fino a quel momento lì.

Ricorda la posizione di Walt Whitman nel componimento Song of Myself (Canto di me stesso), in cui il poeta ricorda che ogni suo atomo di sangue è fatto da quel suolo e da quell’aria dove egli è nato, è il risultato delle generazioni di padri che lo hanno preceduto.

Le riflessioni di Walt Whitman si allargano via via, assumendo una prospettiva universale, a tratti cosmica, in un discorso che parla di tutto ciò che è stato e sarà.

In modo analogo, nello spettacolo Scatenare incendi, i personaggi hanno momenti di agnizione, in cui si alienano dal normale procedere dell’azione e puntano lo sguardo verso l’infinito orizzonte sopra le teste del pubblico, esplorando a parole il passato. A volte parlando dei ricordi del personaggio (il motorino, papà…) altre volte spingendosi fino a ricordare “quando tiravamo i sassi agli sciacalli” o fino al periodo delle glaciazioni sulla Terra.

La storia, di cui è stata presentata solo la prima puntata, si sviluppa intorno alle vicende di una famiglia. Al centro c’è l’ultima arrivata: una bambina di un anno. Intorno a lei si affaccendano tutti i parenti, in una serie di dialoghi serrati ma dal ritmo ben calibrato, dal sapore baumbachiano.

La scena è tutta inquadrata, letteralmente, da una finestra che si apre in un pannello di compensato, del quale il pubblico vede solo il retro. Un set televisivo da cui siamo tagliati fuori, una quarta parete esplicitata, che crea una separazione e una distanza tra spettatore e spettacolo. Talvolta i personaggi escono da questa finestra, ed è l’unico momento in cui si mostrano interi, dalla testa ai piedi, ma anche interi psicologicamente ed esistenzialmente.

Quando subentra il dramma, ossia muore la bambina, la parete-set cade (con un effetto scenico che richiama il miglior stunt di Buster Keaton), e la consapevolezza di essere in una storia a puntate irrompe sulla scena senza più bisogno di aprire parentesi digressive.

I personaggi si ribellano “Io in questa puntata non ci voglio stare…”, si fanno delle domande “E nella puntata dopo questa che cosa succede?”, esprimono il loro disagio nei confronti di una realtà che è diventata troppo difficile da leggere “Non vedo niente. Cosa dobbiamo fare?”, sempre con la chiave di lettura del media televisivo: “Non c’è il televideo?”.

Il finale, naturalmente, è sospeso. L’invito rivolto allo spettatore è di tornare a teatro, per scoprire il seguito di questa provocazione esistenziale in cinque parti.

*

Questi quattro spettacoli riassumono quattro prospettive diverse nella costruzione di un testo scenico, ma sono accomunati dalla prospettiva di un lavoro teatrale che si affida molto alla pratica della scrittura, naturalmente integrandola con gli altri elementi del fatto teatrale. Tuttavia dimostrano che la drammaturgia in Italia è ancora coltivata, le occasioni per emergere ci sono e non è un caso che diversi degli autori citati siano vincitori o finalisti di precedenti edizioni del Premio Hystrio o del Premio Riccione per il Teatro.

Ma se la parola è la chiave fatata che apre ogni porta, per citare don Lorenzo Milani, non è l’unica forma espressiva. Altri spettacoli della vetrina ne hanno fatto un uso meno centrale o non ne hanno proprio fatto uso.

Per aprire una finestra di sguardo diversa, che passa dalla materia e dal corpo, si rimanda all’altro articolo pubblicato da Gagarin Orbite Culturali sugli spettacoli di Colpi di Scena 2025, con la prospettiva di Michele Pascarella.

.

LEAVE A REPLY

Please enter your comment!
Please enter your name here

Questo sito utilizza Akismet per ridurre lo spam. Scopri come vengono elaborati i dati derivati dai commenti.