Le radici nel cuore, sempre Inti-Illimani

Jorge Coulon Larranaga

Sono passati dieci minuti dall’inizio dell’intervista con Jorge Coulón e, d’improvviso, ci accorgiamo che non abbiamo ancora parlato di musica. Cosa peculiare, visto il mestiere di entrambi, eppure non così peregrina data l’aura leggendaria – aggettivo per una volta non troppo iperbolico – che precede il gruppo. Un’aura intimamente politica e civile, che dal Cile del colpo di Stato si è allargata a macchia d’olio, diventando sinonimo di una musica delle radici e del popolo, di coscienza e di militanza. Musica che racconta l’ingiustizia, e come balsamo tenta anche di lenirla.

Avete mai patito il fatto di essere considerati da molti più degli ambasciatori politici che non dei musicisti?
“Un po’. Anzi: sì. Però non c’è mai mancata la stima dei musicisti, e ci ha accompagnati per tutta la carriera con collaborazioni bellissime. Ti dico anche un’altra cosa: credo che la storia degli Inti Ilimani abbia anche incoraggiato molti musicisti italiani di allora e di oggi a ricollegarsi alle proprie radici, a usare i propri folklori per raccontare le storie. Ed è un procedimento che negli anni è diventato sempre più visibile. Quando ascolto giovani suonare musica popolare della Sicilia, della Calabria, della Puglia, ho la sensazione che anche noi siamo stati una piccola parte di questa riscoperta. Quando sento una taranta pugliese suonata con il charango, sorrido”.

Siete stati il primo gruppo “world music” sdoganato nell’Italia dei cantautori e della tradizione?
“Quel termine, world music, mi suona sempre un po’ strano, anche se credo che il movimento intorno a Peter Gabriel lo avesse coniato con le migliori intenzioni. Oggi suona come una cosa un po’ costruita, un po’ posticcia, un po’ fatta su misura. Nel nostro caso era la musica dei contadini cileni, che però raccontava il presente”.

Lo racconta ancora?
“I contadini cileni non esistono quasi più, sono tutti andati in città. Ora la musica cilena è musica prevalentemente urbana, e prende i suoi modelli dall’hip hop come tutta la musica urbana del mondo”.

Riesci a sentire una connessione con questa musica, ad apprezzarla?
“Si’. A livello musicale è certamente più povera di quella che esploravamo noi, ma l’aspetto poetico è’ molto forte ed è ancora più al centro”.

Oggi tu cosa ascolti?
“Ho ascoltato e ascolto di tutto, poi un giorno sono tornato a Beethoven e credo di essere ancora lì…”.

La causa cilena è forse stata quella ha aperto le porte del mondo e dei suoi problemi a una Italia ancora provinciale?
“Credo che l’Italia abbia sempre avuto una coscienza civile forte, prima del Cile era sicuramente stato il Vietnam a portare la gente in piazza. Per l’Italia quelli erano anni di grande fermento politico e culturale, un movimento a cui a un certo punto è stato messo un freno dall’alto… Le vicende dell’ambasciata italiana, e dei cileni, sono senz’altro entrate nell’immaginario collettivo in un modo più diretto di altre, e si e’ creato un legame forte, certo anche tramite noi, e la nostra musica”.

E oggi?
“Oggi molte cause sono globali, in Cile le manifestazioni a favore della Palestina sono state massicce, come da tutte le altre parti. Nonostante i social media operino una narcotizzazione di massa, specie nei giovani, reagire all’ingiustizia è sempre una cosa giusta e buona, e lascia spazio a buoni auspici. Tuttavia credo che la differenza con quegli anni sia soprattutto altrove”.

Cioè dove?
“Nel fatto che allora parlando del Cile, o della causa del Cile, in realtà si tornava a pensare diversamente anche all’Italia. C’era davvero l’idea che un movimento internazionale popolare, di Sinistra, potesse cambiare il mondo, e potesse svilupparsi e crescere parallelamente in tanti paesi diversi. C’era l’idea che davvero fossimo sulle soglie di un cambiamento, che le cose potessero andare in una maniera diversa”.

Difficile non notare come, allora, le Sinistre anche europee fossero, in prevalenza, alternative e molto critiche nei riguardi del modello americano-atlantista-capitalista. Oggi sembrano più i cani da guardia di quel tipo di ordine mondiale…
“Questo è molto cambiato, sì. E onestamente è una cosa che faccio fatica ad accettare. Allora si guardava la scacchiera del potere internazionale e non si accettava di essere alfieri del Re, si pensava di poter fare in un altro modo, che esistesse un modo migliore. E’ andata molto diversamente da come ci aspettavamo”.

Quando un gruppo nasce così legato a un momento storico forte e particolare, fatica a scrollarsi il passato di dosso?
“Certo, ma dipende da come ti muovi. Noi siamo rimasti un gruppo in attività, e quando sei in attività continui a guardare avanti”.

E il pubblico?
“Ci sono canzoni che non possono mancare in un concerto, perchè sono canzoni che sono molto legate alla vita e alle emozioni delle persone, e questo lo si tiene sempre presente”.

Sono canzoni a cui volete ancora bene anche voi?
“Sì, le suoniamo volentieri. Qualche tempo fa Umberto Tozzi ha fatto un concerto in Cile, e credo che il 90% delle persone fosse lì per ascoltare solo Gloria e Ti Amo. Alla fine non credo nemmeno le abbia suonate… però è stato un concerto bellissimo. Noi invece certe canzoni le suoniamo sempre”.

Questo spettacolo come si pone, fra passato e presente?
“E’ un viaggio immaginario, insieme a due di noi e a uno scrittore che conosciamo da quando ha sette anni, un viaggio che ripercorre anche il nostro viaggio, di cui l’Italia è una parte fondamentale”.

Lo spettacolo “In viaggio con gli Inti-Illimani” è al Teatro Socjale di Piangipane sabato 8 novembre ore 18.30 e ore 21.30. 

 

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