Una Maria De Filippi da incubo. Conversazione con Chiara Lagani.

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Discorso Giallo, foto di Enrico Fedrigoli
Discorso Giallo, foto di Enrico Fedrigoli
Discorso Giallo, foto di Enrico Fedrigoli

 

Tre parole per riassumere Discorso Giallo.

Educazione, televisione e giallo.

 Perché?

“Educazione” è l’ambito di appartenenza di questo lavoro, secondo passo del nostro progetto sui Discorsi: sei spettacoli che, a partire dalla forma retorica del discorso pubblico, vogliono interrogare il rapporto, oggi sicuramente in crisi, fra individuo e collettività. Due di questi spettacoli esistono già, mentre gli altri quattro sono in cantiere. Il primo ambito umano di ricerca è stato la politica, con lo spettacolo Discorso Grigio, interpretato da Marco Cavalcoli. Questo secondo passo, Discorso Giallo appunto, è interpretato da me, che mi misuro in scena con una sorta di classe onirica, incubotica. “Televisione” perché questo progetto, indagando la tossicità del contemporaneo, ci ha fatto ragionare su cosa passasse, legittimamente o meno, sotto il nome di educazione, nel media più invasivo nella nostra cultura. Ognuno dei Discorsi è associato a un colore, che lo caratterizza simbolicamente, aprendo un’area semantica. “Giallo” è il colore usato quando bisogna vietare qualcosa: le strisce gialle della strada, il cartellino giallo dell’arbitro. È però anche associato al sole, alla luce. E al loro contrario: il giallo rimanda anche all’aspro, e a qualcosa che abbaglia e quindi provoca dolore. Per me questo colore porta in sé una precisa temperatura del lavoro.

Discorso Giallo, foto di Enrico Fedrigoli
Discorso Giallo, foto di Enrico Fedrigoli

 

Ci racconti la tua esperienza di attrice, in questo specifico lavoro?

Discorso Giallo, come anche il primo spettacolo del progetto, è caratterizzato dal dispositivo da noi chiamato “etero-direzione”, che consiste nel farsi attraversare da un testo, che arriva all’attore attraverso un auricolare. Sono voci di personaggi tratti dall’attualità, recente o meno: in questo caso, dalla storia della TV e della pedagogia televisiva. Ci sono il maestro Alberto Manzi di Non è mai troppo tardi, Sandra Milo e i suoi Piccoli fans, fino a Maria De Filippi di Amici. L’attore deve lasciare spazio, dentro di sé, a questi personaggi che lo invadono, permettendo che queste voci lascino un’impronta sul suo modo di parlare e di gesticolare. È molto diverso dall’imitazione: qui si tratta di accogliere una temperatura umana forte, di lasciarsi attraversare da questa energia, a volte tossica e a volte positiva, per poi restituirla all’esterno. È un processo davvero differente da quello che ho fatto in altri spettacoli, e che prevede un abbandono totale a questo tipo di dispositivo. Ed è anche molto divertente, per chi è in scena.

Dal tema dell’educazione si può facilmente arrivare alla questione dei maestri. Tu chi riconosci come tali?

Ci sono tre diversi tipi di maestrie: quella dei tuoi compagni di viaggio, quella delle figure storiche fondamentali del teatro, e quella di figure estranee, che si incontrano casualmente, e dalle quali si possono carpire insegnamenti fondamentali.

Sono quelli che Grotowski chiamava “maestri inconsapevoli”.

Esattamente Questo sono, ad esempio, per ciascuno di noi, le figure familiari: inconsapevolmente portiamo dentro di noi le loro voci, la loro sapienza.

Discorso Giallo, foto di Enrico Fedrigoli
Discorso Giallo, foto di Enrico Fedrigoli

 

Ci sono alcuni parallelismi evidenti fra i due primi spettacoli del progetto Discorsi.

Oltre al fatto di essere monologhi d’attore, caratteristica comune a tutto il progetto, ci sono almeno due macroscopici parallelismi, tra Discorso Grigio e Discorso Giallo, che non è detto ritorneranno anche nei prossimi episodi. Il primo è l’etero-direzione, il farsi attraversare da una voce: per noi è come una metafora del fatto che ci sono certe questioni, certi pensieri, che ci arrivano nostro malgrado, anche in maniera inconscia, soprattutto attraverso l’essere tutti esposti, chi più chi meno, all’influenza della televisione. Il secondo è a livello retorico: se si analizzano questi due lavori dal punto di vista drammaturgico, si può facilmente notare che sono costruiti nella stessa maniera. Ci sono un momento iniziale, di preparazione, uno sviluppo che porta a un apice emotivo di soli gesti e infine la comparsa del personaggio-maschera, sorta di archetipo che riassume le questioni aperte dallo spettacolo.

Una filiazione di quest’opera, il radiodramma dal vivo Giallo, debutterà al Festival di Santarcangelo, in luglio. A proposito della “classe incubotica” cui accennavi all’inizio: c’è stato, nella preparazione di Giallo, un pensiero esplicito a Tadeusz Kantor e alla sua Classe morta?

Certo l’ho tenuto molto fra le mani, leggendolo e riguardando le immagini di quello spettacolo: non si può prescindere da quell’idea, che ha segnato la storia del teatro del Novecento, quando si lavora su cosa significhi “educazione” nella società umana di oggi. Ma non saprei individuare una derivazione diretta. Certo nel radiodramma dal vivo, che è il dialogo tra me e una classe fantasma, a livello archetipico, o anche solo simbolico, il peso de La classe morta non si può non sentire.

Cosa intendi per “radiodramma dal vivo”?

Qualcosa che ragiona sul livello radiofonico della drammaturgia: ci sono voci, suoni e la presenza fisica di un’attrice in scena, elementi concreti che però rimandano a un altrove, a qualche cosa che non è lì. Il radiodramma dal vivo allude continuamente alla componente radiofonica, che ontologicamente si contrappone allo stare lì, a quell’hic et nunc che è proprio del teatro.

Discorso Giallo, foto di Enrico Fedrigoli
Discorso Giallo, foto di Enrico Fedrigoli

 

Questo posizionarsi tra un qui e un altrove vuole essere anche un invito al pubblico a interrogarsi sulla qualità del proprio sguardo, un incoraggiamento a “guardarsi guardare”?

Sicuramente sì. Nei miei laboratori con gli attori, uso sempre la metafora di Gilles Deleuze della sentinella che sta vigile all’interno del dormiente: una sorta di abbandono attento, che deve essere l’attitudine dell’attore in scena. Anche sul piano dell’educazione si potrebbe rispondere affermativamente: basta pensare alla grande, meravigliosa teoria di Maria Montessori sull’auto-educazione, in cui, con professione di sapiente umiltà, sostiene che il processo di formazione è talmente delicato e misterioso che non si può che guardarlo da fuori, essere un testimone di qualcosa che avviene autonomamente. Mi piace applicare questa idea montessoriana anche allo spettatore: qualcuno che si pone la questione dello sguardo, che lascia accadere un fenomeno. E che al contempo lo custodisce, con la qualità del proprio sguardo: e così facendo, lo rende possibile.

MICHELE PASCARELLA

 http://www.fannyalexander.org