Soundscreen Film Festival, un dialogo su “La Macchia Mongolica”

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Il Soundscreen Film Festival ha aperto le sue porte al pubblico da appena un giorno: un’inaugurazione che ha fatto rivivere la magia del primo cinema, con la poltrona vibrante delle emozioni e delle musiche degli OvO che hanno sonorizzato dal vivo le immagini de L’Inferno di Bertolini, De Liguoro e Padovan. Uno spettacolo emozionante a cui ha fatto seguito una commedia ed autobiografia esilarante, Schemers di Dave McLean, primo lungometraggio in concorso.

La prima domenica del Soundscreen Film Festival si prepara invece ad accogliere nel pomeriggio, alle ore 17.30, il primo film italiano in concorso, La Macchia Mongolica di Piergiorgo Casotti, che sarà presente in sala insieme a Massimo Zamboni e Caterina Russia Zamboni, entrambi protagonisti del film. Un film che nasce da un viaggio di famiglia, ma che vuole andare oltre questo semplice cliché per divenire una riflessione profonda sul concetto di identità e di appartenenza. La Macchia Mongolica è la messa in immagini di una Mongolia naturale e non, dove luoghi paesaggistici si mischiano a quelli di una grande città che non lascia indifferenti.

«In Mongolia ci siamo andati quasi venticinque anni fa insieme al CSI, inseguendo un sogno e un immaginario che era ben scolpito nella nostra testa, fatto di quei luoghi che non cambiano mai e che per questo sono vicini all’origine del mondo», racconta Massimo Zamboni, musicista e fondatore dei gruppi musicali CCCP e CSI, nonché protagonista del film. «In Mongolia si viveva come si è sempre vissuto: con le bestie, in maniera molto isolata e nomade, seguendo i percorsi degli antenati, con modalità di vita che non sono mai cambiate nel corso dei secoli. Il tutto anche mescolato alla fascinazione di quell’impero sovietico che si stava disfacendo e che in Mongolia aveva lasciato delle tracce di cemento, di strade distrutte, di grandi complessi industriali completamente fatiscenti. Quindi c’era il fascino di questo contrasto tra un impero che si definiva eterno ed invece era fragilissimo e l’eternità vera di chi vive con gli animali e sa come affrontare un territorio così duro come la Mongolia. In mezzo a questo, una grande forza nel vivere da parte di questo popolo, che mette al mondo una quantità di figli impressionante. Questo aspetto, vissuto in quel luogo naturale così appacificato, ha acceso in noi il desiderio di avere un figlio per la prima volta. Fino a quel momento infatti non ci avevamo mai pensato. Quando è nata quella figlia, un paio di anni dopo, portava su di sé un piccolo livido che poi scompare con l’età, che si chiama macchia mongolica. A questo punto il nostro legame con la Mongolia è stato indissolubile: una piccola percentuale dei nati europei porta questa macchia sulla pelle, al contrario dei mongoli che nella quasi totalità dei nati ha questo segno che per loro è indice della derivazione divina del popolo mongolo. Per i mongoli infatti si tratta di un vero e proprio punto di onore: si sentono appartenere al proprio popolo solo quando il nuovo nato ha questa macchia su di sé. Il fatto che sia capitato anche a nostra figlia lo si può interpretare come segno di un legame molto profondo che mette in gioco la tua idea e la tua cognizione di identità. Questo ha fatto sì che un piccolo racconto familiare, come ce ne possono essere tanti altri, ha fatto scattare in noi la voglia di metterlo in un film, in un libro, in un album musicale, come un grande ragionamento collettivo su che cosa significa identità e su che cosa significa appartenere al mondo».

Ed è così infatti che è nato il film La Macchia Mongolica. «In virtù della nostra amicizia e della nostra collaborazione che dura da anni», racconta il regista Piergiorgio Casotti, «Massimo mi ha invitato con la sua famiglia a compiere questo viaggio. Ovviamente io ho subito accettato e lui mi ha spiegato che è stata Caterina, sua figlia, a chiedere di andare nella terra in cui era stata concepita, almeno mentalmente. C’erano una serie di coincidenze interessanti: quel viaggio corrispondeva al diciottesimo anno di Caterina, quasi al sessantesimo anno di Massimo, ma soprattutto erano anche vent’anni dal primo viaggio e Caterina era nata con questa macchia mongolica sul coccige. All’inizio non avevamo ben chiaro cosa ne sarebbe venuto fuori, se un video o un documentario, e siamo partiti con solo qualche idea composta di macro punti da toccare. Una volta là, io li ho lasciati liberi, senza nessuna interferenza a livello registico. La telecamera girava libera con loro e abbiamo costruito poi successivamente il film, in una fase di montaggio che è durata due anni. Abbiamo fatto almeno sette o otto montaggi diversi, lavorando per sottrazione».

Di quali materiali si compone il film?

Piergiorgio Casotti: «Si tratta di un film che certamente documenta un viaggio fisico, ma che in realtà, anche grazie all’utilizzo della voice over, crea più un dialogo con sé stessi. Inizialmente, ad esempio, c’era più presenza di Massimo Zamboni: l’avevamo intervistato prima e durante il viaggio secondo un approccio più documentaristico. Poi però abbiamo deciso di iniziare a lavorare sulla sottrazione, quindi lui e sua figlia Caterina compaiono ma poche volte. Il viaggio di vent’anni fa viene appena accennato all’inizio film. Non ci sono materiali appartenenti al passato, perché il viaggio raccontato non ha nulla a che fare con il CSI. Non è il viaggio di un ex CSI che torna in un’ottica nostalgica, ma il viaggio di una persona che è cambiata e anche un viaggio che porta ad interrogarsi sul concetto di identità ed appartenenza. È un gioco tra la Mongolia vera e quella interna e i paesaggi mostrati sono luoghi interiori».

Qual è dunque il ruolo della musica nel film?

Piergiorgio Casotti: «La musica ha un ruolo fondamentale: Massimo Zamboni ha composto una colonna sonora ad hoc, priva di parole, che si configura come descrizione sonora molto vicina alle sonorità mongole».

Come è nata questa colonna sonora?

Massimo Zamboni: «Il film mi ha dato l’occasione di comporre, in maniera realistica, un genere di musica che io porto sempre con me in testa, nel senso che avevo la percezione precisa di come esprimere gli spazi della Mongolia musicalmente. Ho pensato di non fare in modo che la musica fosse solo un supporto alle immagini, ma che fosse anche indipendente. Quindi abbiamo arrangiato le musiche ulteriormente, definendole proprio come un ascolto che può prescindere dalle immagini perché in grado a sua volta di crearle. Si tratta di un album solo strumentale, ad eccezione di una canzone, e l’intento è quello di far viaggiare con la mente chi l’ascolta, di poter immaginare davvero come sia questa Mongolia».

Infatti da questo viaggio non è nato solo il film, ma anche un album e un libro..

Massimo Zamboni: «Abbiamo sentito di doverla esprimere con tanti formati, come la scrittura, la musica e il cinema, perché la Mongolia riempie tutti questi sensi: ti regala moltissima musica, moltissima voglia di immagine, c’è molto spazio per la scrittura. Così abbiamo cercato di dare conto di tutta questa possibilità esprimendola con tre modalità così diverse tra di loro».

Lei ha composto diverse colonne sonore per il cinema. Come è stato invece creare una musica per raccontare la propria storia?  

Massimo Zamboni: «È chiaro che il coinvolgimento è diverso, perché sono luoghi che amo profondamente e che sapevo che avrei potuto musicare anche con una certa facilità. Però non ho trovato grandi differenze nel mettermi di fronte a un film o a una sceneggiatura con l’intenzione di sostenerla e di dar forza al filmato. Ovviamente sono stato più puntiglioso: ho lavorato molto tempo sul mixaggio, perché volevo assolutamente che non fosse un album musicale come si intende normalmente. In questo senso non volevo che si percepisse l’arrangiamento, ma che la musica si liberasse da queste categorie ed entrasse in quella dell’ascolto».

La proiezione del film, accompagnata dalla presenza dei suoi autori e seguita dal recital poetico di Massimo Zamboni, è una grande occasione per poter tornare finalmente in sala. Un’opzione per la quale l’organizzazione del festival si è battuta, convinta, come tutto il settore, che l’esperienza in presenza offra un’emozione unica e insostituibile.

Che cosa significa per lei poter prendere parte alla proiezione del suo film in presenza? 

Piergiorgio Casotti: «Significa moltissimo. Secondo me vedere il film in sala e avere la possibilità di avere una presentazione è fondamentale. Mi piace anche essere presente quando ci sono le proiezioni perché si vive un’energia vitale totalmente diversa. Quindi per me è una grande notizia quella di poter tornare a ricongiungermi con il pubblico».

Il film avrà anche altri canali di distribuzione? 

Piergiorgio Casotti: «Sì, è stato anche al festival Visioni dal Mondo e al Bellaria Film Festival  in concorso. Poi ci saranno delle programmazioni anche a Trani, a Reggio per il festival Oriente Occidente. Adesso il problema grosso è riprendere la programmazione, perché alcuni sono circoli che ancora non sanno quando potranno aprire. Ci saranno sicuramente altre cose però, ne sono certo».

info e programma: soundscreen.org/it/