Vogliamo andare a scuola in santa pas!

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Una lezione all'aperto al Liceo Torricelli-Ballardini di Faenza ph. Stefano Tedioli

Quanti anni ha un lettore di Gagarin? Quanti giornali legge, quanti canali informativi segue? Potrebbe essere un lettore di Gagarin il signore che, la settimana scorsa, vedendo degli studenti accovacciati sul selciato di una strada, avvolti nelle coperte, con i termos a fianco di astucci e quaderni, ha interrotto la lezione in presenza di una docente per chiedergli: «Ma perché non andate a scuola?». Risposta: «Perché non possiamo». «Chi ve lo impedisce?». «La legge», ha risposto pronta una ragazzina di 16 anni. «Roba dell’altro mondo» ha replicato lui andandosene scuotendo la testa.

Forse, anche se leggete i giornali, non sapete che gli studenti delle superiori da settembre hanno svolto solo 40 giorni di lezioni in presenza, che nello scorso anno scolastico in Italia la scuola è stata chiusa per 108 giorni, in Spagna per 67, nel Regno Unito e in Francia per 60, in Germania per 53, e in Olanda per 48.

Per tutta l’estate il comitato Priorità alla Scuola ha chiesto che le scuole venissero chiuse se e solo se a chiudere fosse stato tutto il Paese. Ha chiesto che, diversamente dallo scorso anno scolastico quando erano state le prime a chiudere e le ultime a riaprire, in questo accadesse il contrario. Le scuole chiuse per ultime. Invece, mentre leggete, avremo potuto fare quasi liberamente lo shopping natalizio, frequentare esercizi commerciali mentre, se come me siete insegnanti, avrete fatto lezione in aule vuote, se avete figli li avrete visti soli nelle loro stanze collegarsi a un dispositivo. Sempre che i vostri figli non rientrino tra quei 4 minori su 10 che secondo i dati Istat vivono in condizioni di sovraffollamento abitativo. Forse non i vostri ma i figli di qualcuno non si sono collegati dalla loro stanzetta, ma da un tinello condiviso con un fratellino-sorellina forse anche lui-lei in Dad, forse con uno o entrambi i genitori in smart working.

Per inciso, i dati di Save the Children ci dicono che durante lo scorso lockdown c’è stato un aumento del 73% delle chiamate da parte di donne al numero antiviolenza. Delle richieste di aiuto ricevute, una su tre era da parte di vittime con figli che, nel 64% dei casi hanno assistito alla violenza o l’hanno subita essi stessi. Erano forse a casa in Dad? La scuola è, per molti, troppi ragazzi, l’unica possibilità di emanciparsi da un contesto familiare e sociale difficile, doloroso e troppo spesso violento.

Anno scorso ho praticato la Dad convinta che fosse l’unica soluzione in una situazione d’emergenza, ma quella che stiamo vivendo dallo scorso ottobre non può dirsi tale: le emergenze sono imprevedibili, mentre la seconda, terza e quarta ondata in arrivo erano prevedibilissime. Lo erano certamente dalla scorsa estate, dalla chiusura delle discoteche il 16 agosto, dopo aver lasciato «assembrare» gli adolescenti per poi incollargli addosso la qualifica di untori irresponsabili. Ma solo dopo ferragosto, prima, chissà perché, vigeva il lasciateli divertire di palazzeschiana memoria.

La salute è un concetto complesso riassumibile nella formula di salute psico-fisica e, come ci ha ricordato l’OMS e anche Agostino Miozzo, coordinatore del Comitato Tecnico Scientifico, dobbiamo preoccuparci delle conseguenze che una chiusura prolungata delle scuole comporta non solo sul piano didattico, ma su quello psicologico, relazionale, sociale e di dispersione scolastica. Nei termini della ricaduta che l’inevitabile aumento dell’abbandono scolastico per cui già abbiamo un triste primato in Europa, avrà sul piano della disoccupazione, del disagio e dell’emarginazione sociale. E lo so non solo perché me lo hanno detto loro, ma perché ho visto crescere nei miei studenti, nei figli degli attivisti di Priorità alla Scuola che grazie a questo movimento ho ascoltato, disturbi di origine psicosomatica, di insonnia, di ansia… Ho visto crescere una fragilità emotiva che spaventa me, oltre che loro.

PaS è nata ad aprile 2020 con una lettera al Ministro Azzolina che poi, sulla piattaforma Avaaz ha raccolto quasi 90.000 adesioni. In quella lettera chiedevamo che ci si adoperasse per consentire un rientro a scuola in presenza, continuità e sicurezza. Consapevoli come eravamo e siamo che le scuole, con adeguato personale sanitario, avrebbero dovuto essere, un luogo di prevenzione oltre che di contrasto al contagio. E lo sono state, anche quando hanno riaperto senza gli interventi che PaS chiedeva, ma con la buona volontà di prèsidi e di un personale docente e ata che misurava la temperatura in ingresso, imponeva e controllava il distanziamento, e nel liceo in cui lavoro e in tante altre scuole, anche l’obbligo della mascherina.

La scuola è stata e deve tornare a essere un luogo di monitoraggio e controllo del contagio, prova ne è che là dove queste misure erano adottate, gli studenti che avevano contratto il virus altrove non hanno contagiato alcun compagno, né docente. Anche perché la chiusura delle scuole lasciando aperto tutto il resto, dà ai ragazzi la possibilità di uscire, anche durante le lezioni e nel tempo libero, lasciandoli incontrare in luoghi dove nessuno pretende da loro quei comportamenti prudenziali a cui la scuola li educava.

Sono queste alcune delle riflessioni con cui PaS ha riempito le piazze di 19 città italiane a maggio, di 60 a giugno e poi quella del Popolo a Roma a settembre. In quelle piazze e in PaS ci sono, unite, le tre anime della scuola: insegnanti, studenti e famiglie. Realtà che hanno saputo, per una volta, uscire dai loro interessi particolari per immaginarsi altri: i genitori hanno saputo pensarsi insegnanti, gli insegnanti genitori e gli studenti hanno pian piano acquisito la consapevolezza che la scuola non era un dovere cui li si obbliga ma un diritto da rivendicare. Per questo, tra le tante forme di mobilitazioni adottate in questi otto mesi, PaS ha sostenuto quello inaugurato da una ragazzina torinese di 12 anni che ha iniziato a collegarsi dall’esterno del suo istituto chiuso per pretenderne la riapertura.

Per questo PaS si è inventata Schools for future: quello erano i ragazzini seduti all’addiaccio di fronte a una scuola chiusa, e le insegnanti che fanno loro lezioni all’aperto sono quelle che come me pensano che la scuola sia dove studenti e insegnanti si incontrano. Ho iniziato il 17 novembre scorso con una collega di Firenze e da allora tantissimi altri docenti in Italia stanno facendo lo stesso. A Faenza con i colleghi del liceo Torricelli-Ballardini abbiamo costruito un Calendario dell’avvento per l’epifania della scuola che dal 3 al 23 dicembre ha organizzato ogni giorno una o più lezioni in presenza, all’aperto.

Se vi ho chiesto quanti anni avete, non è solo perché mi chiedo se tra di voi ci sia quel signore ignaro di quanto sta accadendo in questo paese. Ma soprattutto perché forse come me, all’età dei miei studenti, mai vi sareste sognati di manifestare per andare a scuola e vi garantisco che neanche gli attuali adolescenti potevano immaginarlo qualche mese fa. Eppure adesso lo fanno. Provate a chiedervi perché la Next generation cui dovrebbero essere destinati i fondi del Recovery Fund, in queste settimane sta seduta al freddo sul selciato di una strada.

Di Gloria Ghetti