A Radicondoli Vetrano/Randisi ci danno una lezione di vita

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Un grumo di mattoni caldi cresciuto attorno ad una via, due strade parallele che si infrangono sul panorama assolato di campi gialli e nuvole paffute, tra archi carichi di passi e mura spesse che fanno fresco, vicoli a scendere verso la campagna a stringere gli occhi, a stingere i ricordi. Radicondoli è fatta di tetti rossi, di circoli Arci e caserme dei Carabinieri e giù, dopo un paio di bar, fino alla piazza con la chiesa e, davanti al campanile con il grande orologio, il monumento ai caduti che il sabato si riempie dei banchi del mercato. Radicondoli è tutta qua, tre strade che però aprono lo sguardo alle vallate da questa collina preziosa, poche case ma un’aria che entra nelle narici e si fa strada fino allo sterno ed è subito nostalgia tra la statua alla giovane poetessa scomparsa e la Pieve della Madonna accanto al piccolo cimitero nel bosco. Radicondoli è un soffio, un respiro e già nel nome ha qualcosa di fiabesco, lontano nel tempo. In questo luogo antico, e a suo modo magico proprio perché esula dal concetto di cemento e asfalto e smog cittadino, colmo di fascino, accattivante e affascinante, a suo modo misterioso e arcaico, è andata in scena la trentaseiesima edizione del RadicondoliFestival, nella direzione del sempre presente e puntuale Massimo Luconi che, anche quest’anno ha approntato scelte precise nel solco di un teatro di parola dando spazio a nomi consolidati come alle nuove figure che si stanno affacciando sulla scena italiana. Ne è scaturito un bel mix frizzante (gli spettacoli andavano in scena tra le Scuderie e il delizioso mini Teatro dei Risorti, la Pieve e il Belforte, la Chiesa della Collegiata e il Podere La Fonte, il Boschetto al Pianetto e il Podere Tesoro. Accanto al grande teatro anche l’arte con il percorso dei “Paesaggi Contemporanei” per scovare luoghi nascosti o dimenticati, celati dalla troppa luce o dalle ombre che inevitabilmente si formano. Ma non basta il teatro e l’arte ma a Radicondoli vive anche il Premio omonimo consegnato quest’anno ad un Maestro, il regista Massimiliano Civica direttore del Teatro Metastasio, ad un critico teatrale Marco Menini, e alla regista Livia Gionfrida. Un parterre fresco, nuovo, pieno di idee. Grandi nomi si sono qui avvicendati in questa edizione, da Massimo Popolizio a Paolo Rossi, da Luca Lazzareschi ad Arianna Scommegna, fino alla favolosa coppia Vetrano/Randisi.

 

 

Proprio su questi ultimi verte il nostro discorso e ragionamento, la nostra analisi e, doverosamente, il tributo al loro stare sulla scena che riflette il loro modo di vivere, la generosità di questo duo palermitano, da quaranta e oltre anni trasferitosi a Imola, che ha mantenuto intatta tutta la vitalità, la curiosità, l’effervescenza, l’entusiasmo della scoperta dei vent’anni abbinata all’esperienza, alla sapienza, alla competenza delle arti del palco. Guardarli muoversi mentre maneggiano parole e gesti antichi è pulizia per gli occhi ora svuotati dai fronzoli, dalle chincaglierie, dai surplus delle forme. I due (amatissimi ad ogni latitudine e in ogni teatro, non è affatto un caso la longevità artistica) si confrontano e incastrano ancora alla perfezione in un affiatamento, in un amalgama unica e di rara vicinanza. Lo senti l’affetto che scorre in scena, lo senti l’amore per il teatro (che è la loro vita) e l’infinito rispetto che hanno per il pubblico e per il testo, quella piena consapevolezza, mai stanca, senza mai dare per scontato nessun momento, nessun passaggio, quell’essere sempre dentro la drammaturgia che è tutt’altro che mestiere, quegli occhi guizzanti e fanciulli che sprizzano e cercano condivisione e una sponda. Si percepisce nettamente che stanno bene, e perfettamente a loro agio, nel fare quello che stanno facendo sempre con quella spinta, quella carica, quella forza (pur nel garbo, nella grazia e nella gentilezza infinite) di chi non si sente mai arrivato, senza acide bramosie, ma con quella tranquillità data dal loro essere individui risolti che né utilizzano il teatro né da esso si fanno schiacciare. Vedendoli sul palco è come se, ad ogni battuta, ci dicessero che stanno facendo il mestiere più bello del mondo, perfettamente integrati e inseriti dentro i meccanismi, i gesti, dentro la profondità oltre la cornice.

Dopo oltre quarant’anni di lavoro (artisticamente sono insieme dal ’76) hanno ancora molto da dire e da esprimere, da raccontare e da donare, hanno freschezza e innovazione, fervore, brio e bellezza: è questo che fa innamorare di loro ogni sera un pubblico diverso. Sta di fatto che nella prossima stagione avranno tre debutti (per continuare a discorrere sul non sentirsi arrivati né tanto meno appagati o annoiati quando si fa una cosa che si ama profondamente e visceralmente e sempre con estrema umiltà e dedizione): I Macbeth per la scrittura di Francesco Niccolini (la prima apparizione sarà il 2 ottobre al festival calabrese Primavera dei Teatri di Castrovillari), un Aspettando Godot per la regia di Terzopulos e questo piccolo grande spettacolo che abbiamo appunto potuto seguire a Radicondoli, Grazie per la squisita prova scritto da un ispiratissimo Nicola Borghesi, anima della compagnia Kepler 452. L’autore trentacinquenne a confronto con l’affiatato duo con il doppio dei suoi anni. Uno scontro tra uomini di teatro, vecchia e nuova generazione, ma anche tra trentenni in un mondo complicato e in continua evoluzione e settantenni che, nel loro piccolo, hanno fatto le loro battaglie, le loro rivoluzioni, cambiando, per quanto hanno potuto, il sistema, cercando strade alternative, non uniformandosi, prendendo anche scelte difficili e radicali (come lasciare Palermo per l’Emilia a vent’anni).

 

 

Come fosse una prova aperta, con il regista in scena che osserva i movimenti, Vetrano e Randisi hanno addosso abiti di altri loro memorabili piece (il cappotto rosso da I giganti della montagna, quello grigio da Ombre folli) e si portano sul palco come fossero anime sensibili, sentori di altri tempi, fantasmi che aleggiano e albeggiano in teatro, atmosfere impalpabili più che corpi, sogni spruzzati di incubi. E Grazie per la squisita prova, frase ironica e iconica che diceva Leo De Berardinis alla sua compagnia quando avevano appena concluso delle prove orribili, indecorose e scadenti, nasce da una serie di interviste che Borghesi ha fatto ai due montandole in questo spettacolo carico di pathos e divertimento, nostalgia e passione. I loro ricordi personali si miscelano con le memorie degli spettacoli che hanno segnato la loro luminosa carriera, gli incontri pieni di emozione e gli occhi che gli brillano mentre ci fanno sprofondare nella dimensione di un tempo remoto e al tempo stesso concreto. E la discussione con Borghesi entra nel vivo come tra un deus ex machina e i suoi burattini che però, con le loro risposte, lo mettono in crisi con l’affabilità e l’amabilità di chi non vuole avere ragione a tutti i costi prendendolo, senza paternalismi, sotto la loro ala protettrice, rincuorandolo, senza falsi miti, cercando una soluzione al giusto pessimismo di un trentenne nel sistema teatro e nel mondo con le criticità di oggi.

Lo scontro, intellettivo e dialettico, non ha animosità ma mette sul piatto sentimenti e ricerca di una soluzione comune e condivisa, due generazioni che tentano, nelle difficoltà comunicative e relazioni ed esistenziali, di darsi un mano, di ascoltarsi, di tentare di capirsi senza chiusure né preconcetti né pregiudizi. E’ un grido di aiuto di un giovane che chiede risposte o quanto meno un po’ di luce per districarsi meglio nel nebuloso futuro che mette paura per le continue incertezze in quest’ultimo periodo acuite dal devastante trittico pandemia, guerra, inflazione con il timore di una possibile bomba atomica sullo sfondo a terrorizzare il globo. E Borghesi, sempre molto intelligente e arguto, si apre e si mette in gioco, spalanca la sua ambizione legittima mentre il duo palermitano-imolese si muove come fosse un’apparizione, un respiro volatile: Il teatro è effimeroGli spettacoli spariscono, si perdono. Forse è proprio questa la loro forza, la consapevolezza della caducità delle loro creazioni che rimangono vive per un tempo fin quando non rientrano nei bauli dei costumi, vive fin quando ci sarà qualcuno che le seguirà, che le applaudirà. La sfida è riuscire a interiorizzare che il teatro è un attimo, vitale e leggero, presente ma anche delicato che sarà spazzato via dal vento del tempo (sta qui il suo eterno fragile incanto, il poterlo perdere). Come il hanami o sakura, nella cultura giapponese, il fiore di ciliegio che sboccia in modo molto appariscente ma dura per pochi giorni, simbolo della fugacità e precarietà della bellezza e della vita. La sua metafora ci ricorda ogni anno la natura effimera di tutte le cose, anche di quelle apparentemente destinate a durare. E Stefano Randisi ci racconta, e ci fa commuovere, della sensibilità del padre che voleva fare l’attore senza esserci riuscito e che, anche se tutto può finire da un momento all’altro e dura il tempo di un tramonto Tutto serve al mondo, niente è inutile. Una vera lezione di vita da sottoscrivere, imparare, prendere a sorsate, a piene mani. Una confessione, un inno al teatro, un inno alla vita: In teatro non si muore mai per davvero. E se si gioca a fare il teatro (anche a vederlo) si frega la morte, si semina negli abissi, la si fa sparire dal proprio lessico, senza cancellarla o negarla (sarebbe stupido) ma senza vivere nella paura e nel terrore perché prima o poi finirà.

 

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Sono laureato in Scienze Politiche alla Cesare Alfieri di Firenze, sono iscritto all'Ordine dei Giornalisti dal 2004 e critico teatrale. Ho scritto, tra gli altri, per i giornali cartacei Il Corriere di Firenze, per il Portale Giovani del Comune di Firenze, per la rivista della Biennale Teatro di Venezia, 2011, 2012, per “Il Fatto Quotidiano” e sul ilfattoquotidiano, per i mensili “Ambasciata Teatrale”, “Lungarno”, per il sito “Words in Freedom”; per “Florence is You”, per la rivista trimestrale “Hystrio”. Parallelamente per i siti internet: succoacido.it, scanner.it, corrierenazionale.it, rumorscena.com, Erodoto 108, recensito.net. Sono nella giuria del Premio Ubu, giurato del Premio Hystrio, membro dell'A.N.C.T., membro di Rete Critica, membro dell'Associazione Teatro Europeo, oltre che giurato per svariati premi e concorsi teatrali italiani e internazionali. Ho pubblicato, con la casa editrice Titivillus, il volume “Mare, Marmo, Memoria” sull'attrice Elisabetta Salvatori. Ho vinto i seguenti premi di critica teatrale: il “Gran Premio Internazionale di critica teatrale Carlos Porto '17”, Festival de Almada, Lisbona, il Premio “Istrice d'Argento '18”, Dramma Popolare San Miniato, il “Premio Città di Montalcino per la Critica d'Arte '19”, il Premio “Chilometri Critici '20”, Teatro delle Sfide di Bientina, il “Premio Carlo Terron '20”, all'interno del “Premio Sipario”, “Festival fare Critica”, Lamezia Terme, il “Premio Scena Critica '20” a cura del sito www.scenacritica.it, il “Premio giornalistico internazionale Campania Terra Felix '20”, sezione “Premio Web Stampa Specializzata”, di Pozzuoli, il Premio Speciale della Giuria al “Premio Casentino '21” sezione “Teatro/Cinema/Critica Cinematografica e Teatrale”, di Poppi, il “Premio Carlos Porto 2020 – Imprensa especializada” a Lisbona. Nel corso di questi anni sono stato invitato in prestigiosi festival internazionali come “Open Look”, San Pietroburgo; “Festival de Almada”, Lisbona; Festival “GIFT”, Tbilisi, Georgia; “Fiams”, Saguenay, Quebec, Canada; “Summerworks”, Toronto, Canada; Teatro Qendra, Pristhina, Kosovo; “International Meetings in Cluj”, Romania; “Mladi Levi”, Lubiana, Slovenia; “Fit Festival”, Lugano, Svizzera; “Mot Festival”, Skopje, Macedonia; “Pierrot Festival”, Stara Zagora, Bulgaria; “Fujairah International Arts festival”, Emirati Arabi Uniti, “Festival Black & White”, Imatra, Finlandia.