Piccolo esperimento di recensione zen: due coreografie di Merce Cunningham al Ravenna Festival

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ph Agathe Poupeney

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È un po’ come mettersi a dir la propria su Napoleone per una persona che si occupi di Storia, provare a recensire Merce Cunningham, forse il padre riconosciuto della danza contemporanea mondiale: prospettiva fallimentare, e invero anche un po’ ridicola, già in partenza.

Eccoci dunque, con tremore, a restituire qualche pensiero su Cunningham Forever, non felicissimo titolo di una invece felicissima serata del Ravenna Festival che ha avuto luogo al Teatro Alighieri di Ravenna venerdì 7 giugno e che ha visto protagonisti sul palco il Ballet de l’Opéra de Lyon, sotto, nella buca dell’orchestra, il Gavin Bryars Ensemble e, in platea, lo sguardo di un foltissimo e attentissimo pubblico.

In programma due coreografie, tra le quasi duecento create da Cunningham in novant’anni di vita: Beach Birds del 1991 e Biped di otto anni dopo.

In mezzo, nel 1992, la morte di John Cage, compagno di vita e di avventure del senso e del sentire: ma questa è Storia, che non è ciò di cui ci occupiamo in queste poche righe.

Qui, invece, riteniamo rispettoso di quanto incontrato provare un minuscolo esperimento di recensione zen, disciplina che Cunningham e Cage hanno abbracciato e praticato anche attraverso una quantità di dispositivi ed espedienti tesi alla programmatica aleatorietà, con conseguente ontologica valorizzazione di un irripetibile, ancorché spesso minuscolo, qui e ora: da accogliere, fenomenologicamente, in quanto tale.

Sono dunque alcuni frammenti di ciò che i nostri sensi hanno colto e accolto, nel grande teatro ravennate, che proveremo almeno a nominare: cose tra le cose, semplicemente.

 

ph Agathe Poupeney

 

BEACH BIRDS

Come organici mobiles di Alexander Calder, al deciso alzarsi del sipario undici figure stanno. Vibrano un poco, nel silenzio, come mosse da un vento che non sentiamo.

Dalla buca giungono note sospese, rarefatte: un pianoforte, alcuni bastoni della pioggia, un violino e una viola.

In mezzo a molto silenzio.

Vien da pensare a Marguerite Yourcenar: «Ho sempre pensato che la musica dovrebbe essere solo il debordare di un grande silenzio». E a monsieur Cage, che ci ricordava che il silenzio, in realtà, non esiste.

Corpi sottili in sincrono, appena un po’ sfalsati. Millimetrici disequilibri. Scrittura che al micro-sfasamento affida la possibilità dell’esperienza estetica (dunque, etimologicamente, conoscitiva).

Sospensioni, linee allungate e spezzate, inclinazioni di busto e arti a suggerire e subito elidere qualsivoglia immagine riconoscibile.

I costumi sono neri e bianchi: un po’ gabbiani, un po’ pinguini, un po’ linee e campiture monocrome.

Il grande fondale è rosa e azzurro, a suggerire un’alba o un tramonto, un ambiente di James Turrel o una tela di Mark Rothko.

Come mobiles di Alexander Calder, ancora qui è tutta faccenda di equilibri: la scrittura colloca i corpi nello spazio senza gerarchie di valore (ad esempio, convenzionalmente, in base alla posizione / frontalità / visibilità rispetto alla platea).

Qui tutto vale.

Meglio: tutto è.

Molte entrate e uscite, molte reiterazioni, a mettere in evidenza il dispositivo, dunque a sottolineare che questa è avventura del linguaggio, è faccenda di puri significanti.

Coreografia come ingranaggio attraverso cui guardare.

Ma anche attraverso cui «guardarsi guardare», come direbbe il filosofo.

Una grande architettura di minuscoli e al contempo solidissimi equilibrismi.

Sta, evolve, si muove e ci muove.

Poi, a un certo punto, finisce.

 

ph Agathe Poupeney

 

BIPED

Velatino che svela e rivela: mette a nudo e molto nasconde.

Meglio: mette a nudo nascondendo.

Geo-metria: qui si misura la terra.

E l’aria.

E quel che si muove in mezzo.

Rotazioni e salti, in un continuum sonoro di note lunghe, cupe, avvolgenti: le voci di contrabbasso, tastiera, pianoforte, viola, violoncello e chitarra elettrica sono corpi sonori in mezzo ai corpi di carne e a quelli di luce.

Scena come foresta di significanti in cui affondare.

Grovigli organici vs linee rette e forme esatte di luce.

Poi il contrario: coreografia come arte della composizione degli opposti.

Gruppi umani che senza posa si attraggono (con nulli o minimi contatti fra i corpi, senza alcun lirico abbandono bensì, per così dire, oggettivamente) e subito si disfano: è scrittura dell’impermanenza.

Ancora: di ciò che è.

Di un irriducibile qui e ora.

Et ultra, mediante un triplo affondo: nell’umano, sopravanzandolo mediante de-personalizzazione; nei codici accademici, sopravanzandoli mediante decostruzione; nella rappresentazione, sopravanzandola mediante trasduzione in ologrammi e grafismi dei movimenti corporei.

Per concludere, una parola sui costumi di scena che, come consueto in Cunningham, non caratterizzano né per genere né, tanto meno, per ruolo, i corpi danzanti.

Piuttosto, li rendono segni: officianti del rito laico dell’accorgersi.

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