Jacopo Fo racconta di yoga demenziale, politica, creatività e utopie concrete

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Jacopo Fo
casa ecologica ad Alcatraz in Umbria
casa ecologica ad Alcatraz in Umbria

Ricordo, molti anni fa, una gita primaverile nella campagna umbra, assieme alla mia amica Paola. In una specie di agriturismo colorato e artistoide, mangiammo un sorprendente risotto ricoperto di petali di fiori di campo. È con in mente questo sfocato ricordo che incontro oggi il padrone di casa, uno che di stravaganze certo se ne intende.

Comincerei con lo yoga demenziale…

«Da trent’anni propongo una serie di esperimenti, spero divertenti, con i quali cerco di spiegare alcuni meccanismi di funzionamento della muscolatura, della respirazione, dei riflessi, della creatività e delle percezioni. È una specie di percorso di alfabetizzazione al rapporto col proprio corpo, con le proprie potenzialità».

Mi fai un esempio?

«Se spingi col braccio contro un muro per 60 secondi, quando smetti di spingere il braccio si alza da solo. Questo esercizio dimostra che noi abbiamo una muscolatura non razionale: è una cosa oggi accettata dal punto di vista scientifico, ma ancora pochissimo conosciuta. Si può imparare a utilizzare questo tipo di muscolatura, con un doppio obiettivo: mantenere tonico il corpo e utilizzare il 100% del proprio potenziale, scoprendo che si è più forti. Per tenere fermo un pazzo ci vogliono sette sani, perché il pazzo ha superato i limiti che impediscono di utilizzare la muscolatura animale».

Come funziona la muscolatura animale di cui parli?

«È detta anche muscolatura emotiva, si tratta di una muscolatura profonda, aderente alle ossa, fatta di fibre lunghe, al contrario di quella superficiale, che è fatta di fibre corte. Noi possiamo mobilitarla, ad esempio con la visualizzazione. In tutte le arti marziali, da millenni, prima di dare un colpo devi visualizzare il punto in cui esso arriverà. Se prima di spostare un armadio la gente visualizzasse il movimento che vuol fare, e il punto in cui l’armadio deve arrivare, riuscirebbe a esprimere una forza molto maggiore».

 È analogamente possibile implementare la creatività individuale?

«Siamo tutti creativi, ma molte persone tendono a giudicare immediatamente i pensieri che arrivano nella loro testa. Invece, nella fase iniziale è bene buttar fuori tutte le idee, segnandole o registrandole in qualche modo, poi dormirci sopra, lasciando alla mente non razionale la possibilità e il tempo per rielaborarle. E solo successivamente voler arrivare a un’idea finale, compiuta».

Parlando di idee: mi racconti il vostro parco-museo?

«Abbiamo costruito una serie di grandi sculture, di cemento, di legno e di altri materiali. C’è una passeggiata, che si può fare ad Alcatraz, nel bosco, per vedere tutte le opere. Al momento ce ne sono un centinaio, ma intendiamo sviluppare ulteriormente questo progetto».

Quale pensiero sottende a un progetto come la Libera Università di Alcatraz?

«L’idea di fondo è che tutti noi abbiamo delle grandi potenzialità inespresse, per paura, per mancanza di autostima, e per molti impedimenti pratici, che noi cerchiamo di affrontare anche materialmente. Ad esempio abbiamo creato alcuni gruppi d’acquisto, per spendere meno nel comprare l’olio, l’energia elettrica, le telefonate, la casa stessa. Adesso stiamo finendo l’Ecovillaggio, un progetto che mi ha impegnato parecchio, da un punto di vista sia progettuale, che organizzativo e pratico. Spero, nei prossimi anni, di occuparmi soltanto di lavori creativi. Non andrò in pensione, ma vorrei dedicare la seconda parte della mia vita alle produzioni artistiche, che è quello che mi interessa di più. È il mio mestiere».

In ambito artistico, chi riconosci come tuoi maestri?

«Dal punto di vista teatrale certamente i miei genitori. Per la pittura e il fumetto Hugo Pratt e Andrea Pazienza. Per quanto riguarda lo stile architettonico di Alcatraz, il riferimento è stato certo Niki de Saint Phalle, l’artista che ha realizzato il Giardino dei tarocchi vicino a Grosseto: quando mia moglie e io abbiamo visto il suo lavoro abbiamo ricevuto un grande shock, che ci ha dato una forte spinta in avanti!

Ho una telefonata, scusa un attimo… Pronto? Mamma? Ti posso richiamare, sto facendo un’intervista, perdonami, ciao…».

A proposito… Come ti rapporti, teatralmente parlando, a due genitori così ingombranti?

«Il mio stile, la mia modalità di far teatro, che è poi il monologo, viene certamente da mio padre e da mia madre. È una tecnica che ha in sé delle regole molto precise, io non ho inventato nulla. Semplicemente io mi sono messo a raccontare sistematicamente storie diverse dalle loro, forse più direttamente autobiografiche».

Da ragazzino sei stato figlio d’arte, nel senso che lavoravi con loro?

«No. Io ho iniziato a recitare tardi, clandestinamente, sotto pseudonimo: volevo vedere se ne ero capace, a prescindere dal nome dei miei genitori. Ho debuttato in un teatro vero solamente a quarant’anni. In precedenza recitavo in posti assurdi, come discoteche e ristoranti, perché volevo raggiungere un certo livello tecnico, prima di andare in teatro».

Quale era il tuo pseudonimo?

«Giovanni Karen. Con questo nome ho sempre disegnato sul giornale di satira politica Il Male. Ho iniziato a firmarmi Jacopo Fo solo quando ho iniziato a collaborare con il supplemento settimanale de l’Unità: c’erano stati dei forti dissapori tra i miei genitori e il Partito Comunista, negli anni Settanta, così mi sembrava giusto lavorare lì con il mio vero nome. A quel punto avevo già sperimentato il successo sotto pseudonimo, non avevo più il problema di capire se era merito mio o se veniva dal fatto di essere figlio di Dario Fo».

C’è qualcosa, oggi, che ancora ti stupisce, ti incanta?

Innanzitutto, vivere qui ad Alcatraz è uno spettacolo notevole. E poi, navigando su internet, mia moglie e io passiamo ore a vedere cose sorprendenti. Ho la sensazione che negli ultimi cinque anni, dal punto di vista artistico, si sia fatto quanto negli ultimi due secoli, anche come quantità di produzione: non c’è più l’idea di artista inteso come ingegno raro. Oggi nel mondo ci sono una moltitudine di artisti scatenati dalla mattina alla sera, con gente che fa delle cose straordinarie: percorsi totalmente nuovi, in tutte le discipline artistiche. Stiamo vivendo un grande Rinascimento, non ce ne rendiamo pienamente conto, ma la mente delle persone sta cambiando in modo drastico, c’è una cultura completamente nuova che si sta affacciando sul mondo.

A proposito di cambiamenti: cosa ne pensi del risultato delle ultime elezioni?

«È una grossa novità. Ci sono almeno cento cose su cui PD e M5S sono d’accordo, se le realizzassero cambierebbero il volto dell’Italia: tagliare i tempi dei processi, razionalizzare la burocrazia, ridurre lo spreco e le spese militari e dei partiti… Sarebbe una vera rivoluzione. Anche se, non lo si può dimenticare, in Italia esiste una larga fascia di popolazione che vive in nero: aziende che se ci fosse un sistema fiscale sensato avrebbero grossi problemi, evasori, piccoli furbetti. C’è una radicata cultura dell’anti-Stato, e permane una grande ignoranza: metà degli italiani sono analfabeti di ritorno. È diffuso un odio per lo Stato, per la giustizia, per le tasse, per cui un ragionamento anche solo vagamente astratto come ‘conviene a tutti rispettare le regole, perché poi il sistema funziona’ fatica ad attecchire. Il centrosinistra, a differenza di Beppe Grillo, non è stato assolutamente in grado di comunicare: è fermo a una vecchissima concezione di propaganda politica. Tempo fa ho scritto su questo argomento un articolo intitolato Elezioni 2013, perdere è facile, se sai come si fa!. È scomparso l’elemento fondamentale, cioè la politica tra la gente. Io vengo da quella esperienza, in Italia abbiamo cinque milioni di volontari, c’è la finanza etica, c’è un mondo che non è riassumibile dalla politica, che sta molto più avanti. È quello che sta facendo argine, oggi, in Italia, contro la disperazione. Bisogna rifondare la politica, ripartendo da quello che serve alla gente».