Carta Bianca: una piccola famiglia multinazionale

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La storia di Carta Bianca nasce, in virtù di uno dei tanti atroci paradossi della vita, da una morte assurda. Nel febbraio 2010 Sahid Belamel, immigrato maghrebino, muore assiderato nella totale indifferenza fra le nebbie della civilissima Ferrara. Questo perché la follia umana ha deciso che soccorrere un clandestino è, per la legge italiana, un reato. Solo un anonimo necrologio, sospeso fra pietà e indignazione, strappa il nome di Sahid dall’oblio e scuote qualche coscienza. Le poche righe vengono lette da Andrés Arce Maldonado, regista italo-colombiano, e Andrea Zauli, sceneggiatore romagnolo trapiantato da una decina d’anni a Roma. L’eco di quella fine incomprensibile li mette di fronte alla necessità di raccontare e trasfigurare la condizione umana contemporanea che conduce a simili scempi.

Così, da un necrologio, parte il progetto del film Carta Bianca premiato al RIFF (Roma Independent Film Festival) 2013 con il premio Microcinema/Distribuzione Indipendente. «Sarebbe sbagliato – racconta Andrea Zauli, sceneggiatore del film – definire Carta Bianca un film sull’immigrazione. È anche un film sull’immigrazione, ma è soprattutto un racconto sulla paura. Paura della propria umanità, o mancanza di umanità, paura della solitudine e del senso di isolamento che dà la società contemporanea».

Il film narra la vita di tre persone, Kamal, Vania e Lucrezia, che alla vigilia di San Valentino – non a caso il giorno della morte di Sahid Belamel – si incontrano e si scontrano, per le strade di Roma. Incontri di persone, di paure e di modi umanissimi per esorcizzarle. «Ognuno ha qualcosa – la carta del titolo – cui aggrapparsi: quella dei libri, dei soldi o del permesso di soggiorno».

Non andiamo oltre, ché sarebbe delittuoso raccontar la trama. Vi basti sapere che c’è molto di tutti noi in Kamal, Vania e Lucrezia. Così tanto che Maldonado e Zauli hanno affrontato le loro paure per poterlo realizzare. «Il progetto ci ha talmente coinvolto emotivamente che abbiamo deciso di farlo, a qualunque costo». A qualunque costo, significa autoproduzione, anzi autoproduzione cooperativa. Ovvero, chiunque abbia partecipato al film ha acquistato, e prodotto, una quota del film. Così, giunti a coprire i 15mila euro di budget, si arriva a declinare Carta Bianca in un’altra maniera. «Per noi è stata possibilità straordinaria di poter raccontare in totale libertà, opportunità più unica che rara nel sistema cinetelevisivo italiano che nelle maxiproduzioni è piuttosto rigido. Ogni professionista ha prestato la sua opera perché innamorato dell’idea di narrare questa storia».

La troupe passa l’autunno 2011 a girare, e quasi tutto il 2012 a montare la pellicola. Un lungo periodo, che li porta a diventare qualcosa di più di un gruppo che sta facendo un film. «Tutti noi siamo emigranti: regista colombiano, montatrice sudamericana, direttrice della fotografia di sangue tedesco, giusto per fare un esempio. Emigranti particolari, giunti a Roma per fare cinema ovvero per vivere in un mondo mosso da logiche piuttosto particolari. Mettendoci assieme abbiamo reagito alle nostre paure, e nel corso della lavorazione ci siamo sostenuti a vicenda nei momenti difficili. In fondo siamo diventati una piccola famiglia multinazionale».

E il premio arrivato al RIFF rende giustizia a questo progetto. «Per noi significa essere distribuiti, visti nelle sale. Un successo straordinario. Ogni autoproduzione è un’impresa donchisciottesca e lotta con i mulini a vento della distribuzione. Nella vita ogni tanto vince anche Don Chisciotte». Ecco, l’unica follia che andrebbe ammessa è quella che genera arte, non orrore.

 

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