John Fante “Quella donnaccia”

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Il silenzio che c’è in una scuola durante l’estate lo sentono in pochi. Il direttore, la segretaria, qualche studente che ha dimenticato la cartella e a fine luglio se ne accorge… Che contrasto con il caos gioioso (leggi gran casino) dei giorni di scuola, quei giorni in cui non riesci a fare a meno di scendere a prenderti il caffè macchiato extra zucchero della macchinetta (con una merendina alle 10.25 ci sta proprio bene anche a quasi 40 anni).

E in questo silenzio surreale, con un caldo bestiale, sei lì che chiedi preventivi, progetti, raccolte fondi, iniziative, presenti richieste alle fondazioni, sogni di poter comprare agli alunni dei fotonici banchi antropometrici… È in un pomeriggio di fine luglio, tra le 14.23 e le 14.45, mentre il Caronte di turno ti fa sudare tutti i caffè macchiati che hai preso durante l’anno, che ti prendi anche il diritto di rileggere d’un fiato Quella donnaccia di John Fante. Ah, il lusso di saltellare tra inglese e italiano con questi due brevi racconti inediti del primo Fante (in lui Bukowsky riconobbe il suo Dio), la donnaccia in questione appunto e Un criminale.

Sono racconti chiassosi, come chiassosi dovevano essere i parenti di Fante, muratori, macellai, barbieri, scalpellini, camionisti, produttori seriali di scadente vino italoamericano sempre pronto a comparire in tavola e scomparire nella pancia dei litigiosi, incazzosi accoliti immigrati italiani (per poi ripresentarsi più o meno da dove era entrato). In Fante c’è una dirompente forza malinconica, un ridere per non piangere, una non identità che è identità nuova, una razza bastarda, una lingua bastarda, un dialetto non detto, che ti fa ringraziare di aver imparato a leggere proprio nella scuola in cui adesso lavori. Aspetta l’autunno direttore! E tu, vecchio coniglio, non mollare.