Teatro-in-forma-di-libro. Su Artaud e i suoni della crudeltà di Antonello Cassinotti

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«Parto alla ricerca dell’impossibile. Vedremo se sarò in qualche modo capace di trovarlo»: vien da pensare a un frammento della lettera che Antonin Artaud, in procinto di lasciare Città del Messico per inoltrarsi nell’interno del Paese per proseguire il suo viaggio pragmaticamente gnoseologico, scrisse a René Thomas il 2 aprile 1936, nello sfogliare Artaud e i suoni della crudeltà, traccia su carta del vertiginoso progetto teatrale -e più ampiamente culturale- di Antonello Cassinotti (info QUI).

Vi si pensa per l’orizzonte visionario a cui dà corpo, pura utopia in un tempo tanto abbruttito nelle direzioni annichilenti della massificazione e dell’iper-semplificazione di significanti e significati qual è quello che, insieme, stiamo realizzando.

«Teatro-in-forma-di-libro»: la celebre espressione di Ferdinando Taviani posta a titolo di queste brevi note torna alla mente non solo per il commosso e commovente ricordo, privato et ultra che, nel volume, gli dedica Franco Ruffini, ma anche perché del teatro, quest’opera, pare contenere almeno tre elementi essenziali, che vorrei nominare senza alcuna pretesa, ça va sans dire, di esaurire i mondi che lo attraversano.

 

 

FUNZIONE GENERATIVA DELL’IMMAGINE

Il teatro, si sa, è etimologicamente luogo di sguardi e visioni.

È bello pensare che i trentanove contributi testuali che compongono la parte centrale del volume siano nati in reazione/relazione a/con i collage di Cassinotti (come raccontato da Mariano Dammacco, con andamento tra il ludico e l’enigmistico).

È bello ipotizzare, a proposito di enigmistica -o meglio di genealogie- alcuni precursori di queste materiche Figure.

Per amor di sintesi, ne nominiamo solamente tre.

Arnulf Rainer, uno dei padri dell’Azionismo Viennese, in riferimento al collage d’apertura (p. 29), con le tracce colorate a nascondere e al contempo a mettere in evidenza il corpo. Questo fa l’arte, quando è tale: moltiplica i piani. Il resto è predica, didascalia o illustrazione, e non serve a nessuno.

Francis Bacon, nell’inquieta Figura pre-umana al centro del collage di pagina 55: «zona d’indiscernibilità, d’indecidibilità tra l’uomo e l’animale», come ebbe a scrivere Gilles Deleuze nel suo celebre saggio su Bacon Logica della sensazione.

Hannah Höch, non abbastanza ricordata dadaista berlinese, nelle Figure scontornate su campiture monocrome o sporcate da segni, lettere, parole (p. 81 e molte altre): un’analoga funzione interrogante sul già-visto, già-noto, già-catalogato pare attraversare le composizioni di Höch e di Cassinotti. E il teatro, quando è altro dal semplice intrattenimento, della mera decorazione di un tempo e di uno spazio condivisi.

 

 

TEATRO LUOGO DEL NOI

L’arte della scena, si sa, è ontologicamente una faccenda plurale.

Almeno un attore/attrice e uno spettatore/spettatrice, si diceva una volta, sono necessari affinché il fatto teatrale accada.

Molte sperimentazioni avanguardistiche han forzato, con esiti difformi, questo dogma, ma l’assunto di base è appropriato.

Questo teatro-in-forma-di-libro intreccia e rilancia molti saperi: quelli delle studiose e degli studiosi convocati in apertura (non è certo questa la sede per riassumere quelle dense pagine, si farebbe un torto all’attitudine allargante che esse manifestano) e quelli delle artiste e degli artisti che han risposto all’invito dell’agitatore culturale Cassinotti.

Il risultato è da vertigine: della lista, direbbe Umberto Eco.

Delle molte possibilità di variazioni sul già / non abbastanza / per niente noto che da queste pagine emerge con forza proteiforme: nel trattamento grafico che Cassinotti ha realizzato di iconici ritratti di Artaud e in quello analitico e storiografico dei contributi d’apertura, fino alla quarantina di testi nati liberamente in risposta alle immagini.

Ciò non faccia pensare, sia detto per chiarezza, a un confuso baillame in cui tutto vale: in quest’opera la prospettiva è limpidamente indirizzata (la centralità della vocalità e degli universi sonori nella ricerca artaudiana).

E a far da collante (e garante) vi è un artista-mondo: Antonin Artaud.

 

 

TRADIZIONE E TRADUZIONE

Il teatro, si sa, è forte di una storia millenaria che in alcuni casi fa da zavorra, portando all’auto-consolatoria riproposizione di temi e stilemi noti, in altri fa da «trampolino», per usare un’espressione grotowskiana, verso la creazione di nuovi, personali percorsi e discorsi.

La tradizione da cui quest’opera prende slancio e vigore è tradotta in un sistema aperto di significanti e significati: non pacificato, nella direzione della complessità, non concluso.

In questo preciso triplice senso, azzardiamo, pare profondamente rispettosa dell’autore di riferimento.

E gli scarabocchi di Cassinotti sulle molte facce di Artaud funzionano come i baffi di Marcel Duchamp sulla Gioconda: nessuna iconoclastia, nessun «famolo strano», nessuna necessità di espressione personale. Piuttosto la radicale creazione di nuovo, interrogante pensiero.

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