Nell’elementare mistero della poesia. Su I Tolki di Ida Travi

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Ida Travi - ph Dino Ignani

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«Ciò che non sappiamo e che generosamente ci nutre»: un frammento dei Quaderni di prova del seminale spettacolo Nei leoni e nei lupi del Teatro Valdoca di Cesena pare adatto a introdurre qualche breve nota a proposito della raccolta poetica I Tolki di Ida Travi, che il Saggiatore ha da poco pubblicato.

Adatto, questo frammento, per almeno due motivi.

Il primo.

A scriverlo è la poeta Mariangela Gualtieri, che con Ida Travi mantiene da molti anni un proteiforme e profondo legame e che l’editore milanese cita, in quarta di copertina, insieme a Chandra Livia Candiani: nomi noti all’ampio pubblico delle lettrici e dei lettori, riuniti a incoraggiare l’incontro con un’autrice a loro affine.

Il secondo.

Ciò che accomuna, sintetizziamo brutalmente, è una rigorosa e lieta pratica di arte e di poesia come strumento di approssimazione al mistero dell’esistente.

La peculiarità di questo progetto editoriale è raccogliere, per la prima volta in unico volume, tutti i libri della serie poetica che Ida Travi ha dedicato ai Tolki, pubblicati separatamente tra il 2011 e il 2022.

 

 

Non vi è narrazione, qui, piuttosto un sempre mobile campo di forze abitato da figure ritornanti, che spesso si manifestano in prima persona o si rivolgono a un tu con brusca semplicità o, meglio, stando molto prossime agli elementi costitutivi della nostra esperienza nel mondo: l’attraversamento del tempo, gli animali, la solitudine. E rami e scale, orti e corde, campi e tamburi.

Brevissimi testi contrappuntati da alcune folgoranti introduzioni e riflessioni apparentemente discorsive, a dar vita a un teatro etimologicamente trascendente: che contempla, cioè, la materialità del qui e ora strettamente intrecciata all’andar altrove.

Versi asciutti, a nominare con esattezza le cose del mondo.

È lingua di legno e di pietra, quella di Travi, che in esergo al secondo libro della serie, Il mio nome è Inna, avverte: «Fa’ in modo che le parole non facciano pensare alla poesia, ma che lo siano».

A proposito di parole, e della loro materica, organica, finanche ontologica necessità, l’autrice spiega: «Penso a un Tolki come a un parlêtre, un essere marchiato dal linguaggio. Parlêtre è un neologismo di Lacan che fonde l’essere al linguaggio, nell’atto della pronuncia».

Una parola che non può che essere detta, impastata al respiro, alla carne del mondo, è quella che abita le 480 pagine di questa poderosa architettura dell’(in)visibile. A cui affacciarsi. A cui più volte ritornare.

Un’opera-mondo che, come fa l’arte quando è tale, fa scorgere territori dai confini incerti.

Non spiega.

Non rassicura.

Contiene moltitudini.

È tagliente nella sua radicale esattezza.

È per tutti, e per ciascuno.

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