50 sfumature di techno

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2Trovo Riccardo Balli, dj, scrittore, titolare dell’etichetta discografica Sonic Belligeranza e la sua formidabile somiglianza con Billy Corgan degli Smashing Pumpkins, sbracato sulla seggiola rotante con occhiali blu e berrettino da baseball in ¾ all’interno del Der Standard di via Santa Croce a Bologna. Giornata afosa di fine luglio.

Dj Balli è bolognese e ha fatto una parte di storia della musica elettronica italiana ed europea. Nel 2000 fonda la sua etichetta che si occupa di breakcore ovvero di elettronica contaminata tra ritmiche nere (jungle, ragga/dance hall, drum and bass, hip-hop) e rumore bianco (dalla tradizione delle avanguardie musicali colte al power-electronics). Ha scritto diversi libri sul tema. L’ultimo si intitola Apocalypso Disco. La rave-o-luzione della post techno (edito da Agenzia X) e si propone di fare il punto sulla scena elettronica e techno in Italia, di raccontare una scena spesso misconosciuta, ritenuta di serie B o ridotta a semplice musica da sballo. Il tutto dal punto di vista di colui che è ritenuto forse il maggiore esperto in materia

Noize is Politic, iniziamo la nostra chiacchierata da qui…

«Esatto. Il riferimento è alla musica dance, sperimentale. Ma se io dico dance, in Italia soprattutto, ricevo degli sguardi diffidenti, perché evoca degli scenari di plastica, da rimastoni, zombie techno. Bene, a metà tra questi due confini, secondo me, c’è una scena che crea dei contenuti inediti grazie alle nuove tecnologie, a software musicali che hanno permesso l’autoproduzione. Audio valium invece è un termine da addetti ai lavori per chi segue il mondo della musica elettronica e specifico dei rave. Trovo il mondo dei rave illegali in Italia tanto reazionario quanto quello delle discoteche commerciali. E quando parlo di Audio Valium ti parlo della Tekno con la K. Quindi c’è una chiusura totale dal punto di vista musicale da parte del mondo delle tribe techno al mondo delle pasticche. Per questo ho inventato la definizione di zombie techno e la presa in giro dei rimastoni techno. Nel senso che, tranne qualche rara eccezione, il sound system dei rave illegali, delle street parade, propone sonorità tutte uguali, molto reazionarie e non mette in discussione a livello sonoro lo status quo, ma ripete quelle che sono delle mitologie. Il culto delle droghe, e basta».

Un’analisi a livello antropologico è interessante…

«Sì, indubbiamente. Però spesso a livello musicale questo pubblico non è aperto – tranne qualche rara eccezione – alla sperimentazione, anzi… Se gli proponi generi che escono da quello che serve loro a calarsi la droga di turno si arrabbiano pure…».

Tu sei un dj, non un compositore. Cioè si tratta quasi di un cut-up alla William Burroughs…

«Sicuramente. Tutta la musica techno ha sempre mancato di teoria. All’estero invece l’hanno capito. C’è bisogno di teoria per comporre. Si tratta di dare consapevolezza a quello che si sta facendo, che è la realtà musicale che si sta autoproducendo. Troppo spesso non c’è consapevolezza, ma solo tanta droga. E si costruisce una musica per impasticcati».

Invece dietro alla tua tehcno di musica colta ce ne è parecchia.

«Assolutamente sì: il breakcore è il raggae digitale, poi dietro ci sono anche le ritmiche nere e la tradizione colta bianca, tipo la musica concreta. Tutto si mescola, così nasce qualcosa di nuovo».

Un dj set di elettronica è musica suonata quindi?

«Sì, sì… è suonata. Grazie al selector, il selezionatore al quale devo massimo rispetto. Il dj è uno che suona: mette a tempo due fonti sonore. In questo senso la sua è una vera e propria esecuzione dal vivo».

Si può parlare di improvvisazione come nel free jazz?

«Durante i dj set funziona esattamente alla stessa maniera».

Con la tua musica intendi tradurre o sovvertire l’ordine del mondo esterno?

«La razionalità viene cortocircuitata. Attraverso le frequenze, cerco di rivalutare la musica per il corpo, dopo anni di intellettualismo. La musica è il più emotivo dei medium artistici. Io voglio tradurre una Tokyo nell’ora di punta che è un bombardamento di impulsi. Voglio una musica che parli del mondo contemporaneo e sia in grado di tradurlo in vibrazione per il corpo».

Come Paul Kalkbrenner che registrava i suoni della metro, il pulsare della città.

«Sì, però io voglio andare al di là. La mia musica è mimetica, è ritmo nevrotico».

Quando parli dell’era postindustriale, cosa intendi?

«La musica industriale è stata un’altra mia grande influenza. La postindustriale è la dance che è stata creata su ispirazione di quella industriale. In questo senso postindustrial».

Musica industrial… Mi vengono in mente gli Einstürzende Neubauten.

«E ti viene in mente giusto. Ci siamo capiti. Ti vengono in mente i Throbbing Gristle, i Cabaret Voltaire, i Laibach: questi sono i padri capitali della musica industriale».

La connotazione industriale cosa aggiunge al concetto di dance?

«Pesantezza, ipnoticità, ritmica alienante da fabbrica. Ed è un tipo di techno francese hardcore, che adesso è molto di moda, il cosiddetto French core».

Quali sono i Festival nei quali hai suonato? Un po’ dappertutto in Europa. Anche in Inghilterra?

«Sì… Il Paese il cui ho suonato di più è l’Austria, a Vienna. Quelli sono stati gli anni del breakcore, che allora era la musica più innovativa. Il breakcore negli anni ’90 è nato, però nel 2000 ha avuto forse il momento di maggior diffusione. La mia etichetta, la Sonic Belligeranza, è nata nel 2000, ed è stata una autrice dal basso di questa scena. Così sono stato invitato un po’ in tutta Europa, dal Belgio, all’Inghilterra, alla Francia, alla Germania, alla Repubblica Slovacca, alla Slovenia, alla Svizzera. A Vienna ero quasi un dj resident di breakcore. Andavo ogni mese. Il mio nome era associato al genere. Ora breakcore non è più così richiesto e anche a me ha stufato».

Quale genere proponi ora?

«Ora sto facendo il mash-up. È più ironico e ballabile. Si tratta di una commistione di generi. Un blob sonoro. Tipo cinque secondi di musica hawaiana, poi cassa gabber, poi drum’n’bass, parlati di Vanna Marchi, una sorta di teleflipper impazzito in cui ci sono dei passaggi quasi leggibili, ironici, puri divertissement. Quindi faccio cose più soft di prima, meno industriali. Suono ancora coi giradischi, sono uno dei pochi a farlo. Oggi usano tutti un software come Ableton live. Io continuo a sentire l’esigenza della fisicità. Mi piace comprare i dischi, scambiarli, rivenderli. Questo è il mio mondo, che poi è tornato di moda».

Meno industriali, più ironiche, ma non più commerciali? Più ballabili ma non commerciali?

«Suono anche tanta musica commerciale, ma storpiata, perché ritengo sia sovversivo».

Quindi storpiare il commerciale è un modo di irridere il sistema?

«Esatto! Pezzi degli Scooter, hai presente? Una techno band da stadio che ha avuto un grosso seguito, hanno fatto degli anthem, dei veri e propri inni, musica di un cattivo gusto incredibile, e quindi dei veri e propri geni».

Come ti trovi in questo Paese avendo una cultura tanto underground? Mai pensato di trasferirti?

«Guarda, io sono molto legato, anche per ragioni personali, familiari, a Bologna. Ma ci ho pensato un sacco di volte. Anche se ultimamente sono molto più pacificato. Per me l’underground è bello dov’è. L’underground, per esempio, del paesino della Repubblica Ceca mi incuriosisce. A Berlino ci sono 5.000 dj, il breakcore è una parola che si conosce, non come qua. In Italia sono uno dei pochi e cerco di farla conoscere nel mio Paese. A 40 anni suonati l’espatrio lo vedo sempre più lontano. A Bologna, insieme alla Regione, ho curato il sito bolognoise.org, un archivio di 150 suoni su google maps Bologna, da cui esce un profilo sonoro della città. Una mappatura che ha a che fare con la città come fonte di stimoli acustici e la possibilità di geolocalizzarli. Quello che voglio dire è che nel 2013 ha senso fare queste cose a Bologna. Bisogna decentrare. Parliamo tanto di nuove tecnologie, decentramento, policentrismo, eh alora (ben bolognese) a Canicattì come a New York».