Il divino Erri

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Erri De Luca

«Guai a quelli che non praticano la propria purezza con ferocia» dice il poeta argentino Mario Trejo, citato in esergo a Tre cavalli, libro pubblicato da Erri De Luca nel ’99, da me letto e riletto, imparato a memoria in molte parti, diventato anche il filo conduttore di uno spettacolo realizzato con un gruppo di tangueri cesenati. È dura, la vita del fan. Va da sé che quando l’altro giorno a Bologna vedo un manifesto che annuncia Erri De Luca in una libreria del centro a presentare il suo nuovo libro, fantastico di chiedergli un’intervista di dieci minuti per Gagarin. Un po’ esitante torno a casa e cerco la sua mail sul web, la trovo, indugio ancora. Ripenso al buon consiglio di Trejo, allora scrivo, spiegando di Gagarin e chiedendo l’intervista di dieci minuti, prima o dopo il suo incontro pubblico bolognese. Rileggo, aggiusto, rileggo ancora. Poi invio. Trenta secondi dopo (trenta secondi!) Erri mi risponde: «vediamoci mezz’ora prima in libreria, poi non posso, erri». Io in libreria ci arrivo con due ore di anticipo. Aspetto e aspetto. Due minuti prima dell’appuntamento (due minuti!) si impone un bisogno indifferibile: andare in bagno. È dura, la vita del redattore. Scendo le scale. Bagno occupato. Mentre aspetto, penso che magari Erri è lì che aspetta me che devo andare in bagno. Ma và, impossibile. Dopo un tempo prevedibilmente eterno si apre la porta, il bagno si libera, e anch’io. Risalgo le scale. Lì c’è Erri, che aspettava me che dovevo andare in bagno. Cominciamo subito, mi son già mangiato un ventesimo dei dieci minuti concessi. Gli ammiratori premono, con sgomitate e autografi e strette di mano. E un uomo enorme con la faccia tutta rossa, fermo in piedi a un paio di metri da noi, ci guarda insistentemente. 

Nei tuoi incontri con i lettori, negli anni, ho spesso visto persone chiederti opinioni sul mondo, domandarti indicazioni “larghe” sulla vita, cercare una guida. Perché, secondo te, ti trattano come una specie di maestro, di guru?

Questo succede con qualunque persona che faccia lo scrittore, gli si attribuisce una conoscenza del mondo e della vita che di fatto non possiede: è responsabile e competente solamente delle sue storie, di quelle che scrive. Dunque c’è una aspettativa che non può essere ragionevolmente soddisfatta. Nel mio caso, è come se avessero a che fare con una specie di zio lontano, al quale chiedere una battuta, una cartolina, piuttosto che una guida per la vita.

Che effetto ti fa?

Mi sento privilegiato a ricevere delle domande che non siano quelle dei magistrati: che siano domande per sapere. In latino ci sono due verbi: uno è un chiedere per ottenere, uno è un chiedere per sapere. La magistratura di solito chiede per ottenere una cosa, un’informazione che possiede già. Invece, nelle domande delle persone c’è una curiosità vera, un interesse nei confronti di un’altra persona, e questo è un atto di generosità e cortesia. Ho il privilegio di riceverne, cerco di essere con le mie risposte all’altezza di quelle domande.

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Da ragazzo sei stato responsabile del servizio d’ordine di Lotta Continua, durante la guerra in ex-Jugoslavia hai guidato dei camion trasportando aiuti umanitari: una tenace attenzione a ciò che accade nel mondo, molto lontana dall’idea romantica dell’artista che se ne sta chiuso nella sua stanzetta a farsi cogliere dall’ispirazione. In Chisciotte e gli invincibili dicevi «la poesia non è una serenata sotto un balcone chiuso al chiar di luna ma è il formato di combattimento e di resistenza delle letterature». Oggi il tuo scrivere a cosa serve?

Lo scrivere degli scrittori, e dunque anche il mio, serve a tenere compagnia. Nei casi di libertà di parola negata, di regimi di tirannia o di sopraffazione la parola ha il valore aggiunto: quello di testimoniare la resistenza all’ammutolimento e alla privazione del diritto. Uno scrittore dovrebbe avere a cuore, oltre alle proprie pagine, anche la libertà di parola e di espressione degli altri. Non dei suoi colleghi, proprio di quelli che non ce l’hanno: quelli che vengono da un altro Paese e sanno parlare male la lingua, i muti, i prigionieri, i detenuti. Credo che se uno volesse fare qualcosa di più, nella sua vita di scrittore, oltre a scrivere bene i suoi libri, che è la prima cosa, dovrebbe aiutare la libertà di parola.

In questa fase della tua vita ti interessa insegnare il mestiere ad altri scrittori, anche per passare un testimone o forse per desiderio di continuarti in altri?

No, non intendo essere di esempio, di pista, per nessuno: io mi avventuro nelle cose che mi capitano intorno e che mi costringono alla loro attenzione, alla loro chiamata. Sono cose personali, come i libri. Anche consigliare un libro, non va bene: i libri sono incontri. Le cose che faccio nella vita, come cittadino di questo Paese, sono incontri con questa realtà.

Hai lavorato molto a traduzioni, anche dall’Antico Testamento. Oggi i tuoi libri sono spesso tradotti in varie lingue europee. Quando, secondo te, una traduzione va bene, funziona?

Nel caso della scrittura sacra, cioè delle traduzioni dall’ebraico antico, la traduzione per me è un atto di ricalco della lingua originale, in cui l’italiano può stare anche scomodo sotto la lingua di partenza: ci deve stare in funzione di servizio. Invece, nelle traduzioni letterarie, bisogna andare dietro al ritmo della frase. Io non sono un traduttore di professione, traduco solo quelli che fanno piacere a me, quelli che con il loro ritmo mi hanno ispirato questa forma di ammirazione che è la traduzione. L’ammirazione, per me, è un sentimento che non si muove, non vuole sovrapporsi all’autore, non vuole prendere il posto dell’autore: non lo voglio scalzare dalla sua posizione, rimango lontano. L’ammirazione non vuole “stare al posto di”, è diversa e opposta all’invidia, che invece vuole “stare al posto di”.

Hai anche riletto L’ospite di pietra di Aleksandr Puškin.

È una piccola opera teatrale. Mentre la stavo leggendo, con l’aiuto di quella traduzione cominciavo a correggerla, per renderla un poco più leale, più fedele all’originale. Mi è capitato di farlo con spirito di fedeltà.

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Il tuo ultimo libro, Storia di Irene, da quale occasione è nato, o da quale necessità?

Non ci sono necessità, nelle cose che scrivo. E non scrivo sotto comando della Musa. Scrivo perché mi arriva qualche storia, che emerge dal mio passato, affiora: mi piace stare di nuovo assieme alle persone di quella storia, e così comincio a scrivere. Oppure la storia mi arriva da fuori. Questa di Irene mi è arrivata da fuori. Stavo su un’isola greca, due estati fa, in mezzo a quel vento molto robusto, che impedisce quando soffia qualunque tipo di rapporto, di conversazione. Mi sono messo all’ascolto di quel vento. Questa storia mi è arrivata dentro quella spinta, dentro la spinta che fa quel vento del Nord che si chiama meltemi e che cavalca l’Egeo e lo scompiglia.

Su “scompiglia” Erri si alza, la gente subito lo circonda. Autografi, strette di mano e sgomitate. Il signore grande, grosso e paonazzo si avvicina, con gli occhi lucidi, e chiede a Erri di poterlo abbracciare. È dura, la vita dello scrittore.

MICHELE PASCARELLA