Califone: vetri rotti d’America

0
738

Cali_11Califone: i blues e la verità astratta. Paroloni e citazione d’annata (The Blues and the abstract truth è un pezzo di Oliver Nelson, con Eric Dolphy in formazione) per un gruppo/laboratorio che ha fatto del proprio cortocircuito fra tradizione e futuro un marchio inconfondibile. Un gruppo/laboratorio che, sia detto a giustificazione di superlativi prossimi venturi, amiamo visceralmente. Di testa e di pancia.

I Califone, stringi stringi, fanno sempre lo stesso disco. Lo pubblicano di tanto in tanto, e a noi piace sempre. Certe volte risuona di più con le cose che stanno intorno, certe volte meno. Resta sempre un buon disco. Come questo Stitches, che arriva lasciando in scia un odore di cose buone e familiari.

Tornano presto dal vivo, e vanno visti. Un gruppo che riparte ogni sera da capo, e ogni sera mette in scena il lusso e il rischio di smontare i pezzi e rimontarli. Quando funziona – e funziona quasi sempre per la verità – è una piccola grande epifania.

La prospettiva da cui i ragazzi muovono la materia è la chiave di volta della loro freschezza, ogni volta uguale e ogni volta nuova. Ricucire dagli scampoli. Ricostruire dai frammenti disordinati di tradizioni americane pescate dal rigattiere, messe insieme con la logica del caso e non del calcolo.

O recuperati in una memoria condivisa di cui si è perso il criterio ordinativo, e da cui si attinge sulla base dell’emozione istantanea. Sposare la serialità del blues e della canzone folk con un’elettronica a bassissima fedeltà. Accompagnare lo spleen degli anni ’90 negli anni Zero con una musica nuova, che abbia il senso della tradizione ma non le braccia aperte-rassicuranti-consolanti del passato.

La formazione muta ma non troppo, e ruota intorno al baricentro di Tim Rutili – voce svogliata e penna di poche, incisive parole – alla regìa sonora di Brian Deck, a set percussivi sempre nuovi, che poggiano ogni cosa su un pulsare che sa di africa e di elettronica, di minimalismo e di musica concreta. E cantati come litanie, aggrappati a strutture evanescenti, eppure di ferro e legno e pelli, lontane risonanze sintetiche, abbozzi di rock deviante tenuto sempre nelle marce basse, a fare ingrossare il motore e non partir mai in velocità.

È musica di isolamento, di sentimenti sospesi, eppure di cuore. Che dal midwest di Chicago sfiora la costa, i deserti, le foreste, i confini e poi torna a prendere freddo sul lago Michigan. Americana nel suo starsene aggrappata alla terra come unica identità possibile, per poi proiettare la propria solitudine di individui in un’orbita lontana, a risuonare senza nessuno che la senta.

Musica cosmica per nuove, cosmiche solitudini.

E poi improvvise aperture di pura melodia, a lasciare intendere che per essere pop basterebbe volerlo. Ma si può anche non volerlo. E si può anche stare sulla scena, ed essere rispettabili, alle proprie condizioni. Qui c’è l’altro motivo per cui Califone sono un grande gruppo.

Specie in quest’epoca di musica istantanea, intuizioni lunghe quanto jingle, sufficienti per fare andare in iperventilazione il blogger del momento. Qui si parla di altre cose, di altri livelli. Di gente di suono. Di tribù di suono. Musicisti. Gente che sa mettersi al servizio di altri, e della musica. Che sa sonorizzare le immagini e i film, che sa fare squadra e aiutare altri (anche i bolognesi Franklin Delano, in un disco di qualche anno fa), gente per cui fare una cosa bella è ancora più importante della photo session o di un ufficio stampa aggressivo.

Tornano dal vivo, e ci torniamo noi. A raccontarci ancora una volta che tutta quella bella corrente fiorita fra i secondi Novanta e i primi Duemila non è stata una bugia. Che l’ultima americana non reazionaria è stata quella, e tutto il resto è noia. E riflusso.

 

ANTONIO GRAMENTIERI

5 dicembre, CALIFONE + AEDI,  Bologna, Locomotiv Club, via Serlio, ore 22. Info: 348 0833345, locomotivclub.it