Quando smog diventò Bill

0
814

Chi avrebbe mai immaginato che, nascosto dietro le sghembate elettriche e «mal fatte» dei primi dischi a nome Smog, si nascondesse un superbo songwriter (no, non si può tradurre con cantautore, è un’altra cosa) elegante ed intimista, dotato di un lirico disincanto, ma privo di ogni cinismo?

Il primo Smog era la punta meno accondiscendente di quel genere-non-genere che prendeva il nome di Lo-Fi. Dentro Lo-Fi, come in tutte le semplificazioni categoriali, c’era di tutto: Sebadoh, Beck, Pavement, Modest Mouse, Guided by voices.

Il primo Smog registrava su cassette frammenti rumorosi da garage rock, come Daniel Johnston prima di scappare con un circo. In una recente intervista sul portale musicale Pitchfork, Bill ha definito questa prima fase della sua carriera come il «periodo tattile»: era, in definitiva, più interessato ad una ricerca interna al suono rispetto ad un approccio più classico con la forma canzone.

Considerando Julius Caesar (1993) e l’ottimo Wild Love (1995) gli album-confine tra la prima e la seconda fase, è con The doctor came at dawn (1996) che avviene la trasformazione: Smog diventa Bill. Non ufficialmente, certo. Lo pseudonimo durerà fino al 2005. Ma è in quell’album – in cui ci si perde quasi ad imitazione della nave in copertina – che Bill si palesa. Anche la voce cambia: dai ruggiti adolescenziali al baritono profondo e austero di crooner svogliato. L’incontro con l’eclettico producer e musicista Jim O’ Rourke (Gastr del sol e, per un periodo, colonna aggiunta nei seminali Sonic Youth) può essere considerato la chiave di volta della sua carriera.

Da anni Bill ci delizia con album sempre più complessi, racchiusi in un’atmosfera da sofisticato rock da camera, senza per questo lasciarsi sfuggire imprevedibili e soffici perle pop (cos’altro è Cold blooded old times, finita addirittura nella colonna sonora di High fidelity?) o deliziose ballate dal sapore nostalgico (Dress sexy for my funeral). La musica di Bill racconta certo di amori difficili, alienazione e incomunicabilità, ma è sempre intrisa di autoironia, pronta a sbalzi ed aperture imprevedibili. Spesso accusato di freddezza, è invece capace di avere un rapporto intimo con il proprio pubblico attraverso la musica.

La dimensione live, nonostante la ben nota ritrosia ad interviste ed autocelebrazioni (forse alimentata dai genitori, analisti per la NSA, la sicurezza nazionale americana) è quella che, a sorpresa, meglio lo rappresenta. C’è chi ancora lo ricorda, nei primi anni ’90, in una serie di concerti in Italia, in cui riusciva ad ipnotizzare i (pochi) presenti con la sola voce ed una chitarra, magari in compagnia di un altro grande rappresentante del neo folk americano: quel Will Oldham/Bonnie Prince Billy, finito sulle colonne sonore del noto fan Sorrentino, che all’epoca si faceva chiamare misteriosamente Palace Brothers.

Spogliatosi definitivamente degli abiti ormai storicizzati del moniker Smog è vicino ai fatidici cinquanta. Sarà quindi un piacere ritrovaelo in concerto, il 18 febbraio, al teatro Antoniano di Bologna, nell’unica (purtroppo) data italiana. Quello che troveremo è un autore ormai capace di sorridere (qualche volta, solo qualche volta) catturando piccoli squarci di quotidiana poesia.

Per alcuni il suo ultimo lavoro, Dream River, è il migliore. Di certo, Callahan arriva da una sequenza di almeno tre grandi dischi: il raffinato e oscuro Sometimes I wish we were an eagle I used to be darker – than I got lighter – then I got dark again», dalla meraviglosa Jim Cain), la dolcezza quasi country di Apocalypse ed ora, appunto, il complesso ed elusivo Dream River. Cercate un posto dentro il «piccolo aereo» di Bill, pieno di storie minimali ed eteree. Da non perdere.

ANDREA SILVESTRI

18 febbraio

BILL CALLAHAN

Bologna, Teatro antoniano, via Guizzelli 3, ore 21

Info: 051 3940211