Da Bruce al Jazz, come swinga Max Weinberg

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Max, era Max, più tranquillo che mai.

Nel 1988 a Torino, a pestare su un set piccolo in uno stadio enorme, e insegnare ad una generazione il senso di un batterismo rock senza narcisismo, al servizio della canzone. Davanti c’era Bruce, anzi broooooceeee, al culmine della condizione, l’edonismo reganiano come sommo fraintendimento del messaggio e altre 80mila persone a far spintoni con me e lo Squalo.

Ventisette anni dopo Max è qua al telefono, e nel frattempo è successo di tutto.

Lui è stato pensionato insieme al resto dalla E-Street Band nei primi ’90 e anziché deprimersi e godersi i soldi si è rimesso a studiare e si è reinventato personaggio televisivo di successo. Poi è rientrato con Bruce a fine ’90, facendosi anche un po’ pregare, con un piede nella band e uno in tv. E da allora, ancora stadi pieni e dischi milionari. E ancora tv, quella buona, con Conan O’Brien. Una gran bella carriera.

Benchè la cosa sia di minor interesse per le enciclopedie rock, anch’io nel frattempo sono diventato un musicista di mestiere, e se non ammettessi che quel concerto di Torino e quelle pacche sul rullante di Max hanno avuto la loro importanza nella decisione, direi una bugia. Allora lo dico anche a lui, in apertura di conversazione. Max pare essere contento, e anche questa madeleine di lusso è servita. Andiamo avanti.

Adesso Bruce è in pausa, e Max si fa un giretto in Italia con il suo quintetto jazz, area hard-bop. Immagino già lo sconcerto dei fan di Bruce nel sentire tutti quegli accordi, ma Max pare non preoccuparsi troppo dei generi.

“E’ musica intensa, energetica, che suono insieme ad alcuni dei musicisti jazz più talentuosi che ho conosciuto. Sono cose in area Art Blakey, magari Thelonious Monk. Certo, io sono un batterista dell’epoca rock. Però mi sono accorto presto che anche senza un cantante davanti puoi comunque dare qualcosa di importante, se tieni l’energia alta. Peraltro quando non sono con Bruce ho sempre dato la precedenza al linguaggio strumentale, è una cosa a cui sono molto legato”.

Il Max moderno riparte, o meglio rinasce, dallo scioglimento della E-Street Band, primi ’90. Potenziale disastro per chi aveva accompagnato Bruce, anzi broooooceeee, per una vita intera, dai club agli stadi pieni, dal tirare la cinghia alle copertine di tutte le riviste. Invece no. Non per Max, almeno. Che esce da quegli anni meglio di come ci è entrato, e con un bagaglio tecnico incredibilmente ampliato.

“La gente dice che sono migliorato in quegli anni? Certo che sì. Sono stato in tv dal 1993 al 2010. Passare dal suonare solo con un personaggio, solo un repertorio, all’accompagnare in due sere diverse gente come B.B.King e Tony Bennett ti obbliga ad allargare gli orizzonti. Devi stirare le tue convinzioni, andare oltre. Tutto quello che è successo da allora è stato sicuramente legato alle sfide che ho affrontato in tv”.

Max dice ogni due frasi I believe in improvement, e lo dice con un’umiltà, una convinzione che suonano autentiche. Tuttavia, in questa tranquillità, pesa probabilmente anche un altro fattore. Negli anni della tv, Max riesce anche nel passaggio tutt’altro che trascurabile dall’essere percepito dal mondo come “il batterista di Bruce” a essere semplicemente Max Weinberg. Una bella parabola americana sul credere in se stessi.

Lui comunque non ha sassolini nelle scarpe e la mette giù semplice.

“L’unica cosa a cui sono sempre interessato è imparare a fare cose nuove, trovare il modo di suonare cose che non so ancora suonare, accettare delle sfide. Il mio segreto? Credo sia questo, insieme al fatto che ogni volta che mi siedo dietro ai tamburi torno ad essere un ragazzino di 14 anni. Mi piace ancora montarmi la batteria da solo, è una cosa che mi tiene legato al senso del mio mestiere. La cosa che mi dà più soddisfazione, in uno stadio come in un piccolo club, è vedere che la gente reagisce fisicamente al suono, che la gente balla sul mio beat. La mia generazione si è formata nell’epoca d’oro del rock and roll, e questo tipo di fisicità è quello che ci siamo portati come dote”.

Ma passare da uno stadio pieno che urla a un club silenzioso presuppone una sorta di dissociazione, di scarico della zavorra rock?

“Assolutamente no. E’ esattamente la stessa cosa. Alla fine vuoi sempre sentire e vedere people dancing to your beat”.

Suonare Jazz nel 2015, portare sul palco il senso dell’interplay e dell’invenzione momentanea, e farlo con un pedigree così rilevante, persino ingombrante, in ambito rock. E’ anche un invito ai giovani e ai fans a tenere le orecchie aperte sul passato?

“Può sembrare strano detto da uno che, se dovesse citare i suoi preferiti, citerebbe Frank Sinatra e Buddy Rich, ma io non sono un fan del passato. Io sono un fan di qualsiasi cosa fatta bene. Vedi: non puoi impedire al futuro di succedere. Ci sono infinite maniere di esprimersi con i suoni. E ci sono sempre state, non solo oggi. Le modalità di fare musica sono cambiate di continuo negli ultimi decenni: la tecnologia, gli stili, le tendenze. Ma il punto finale è che ogni cosa che ti ritrovi a disposizione alla fine ritorna comunque invariabilmente a te come individuo, e a quello che hai da dire. Nella misura in cui cerchi di fare qualcosa di buono, di migliorarti, di realizzare qualcosa al meglio delle tue abilità, senza volere essere per forza fashionable, verrà fuori qualcosa di vivo e di vitale. Questo a prescindere dagli stili di moda al momento, dalla tecnologia, da qualsiasi cosa”.

A un musicista che ha avuto tutto dalla sua carriera capita di sorprendersi ancora?

“Anni fa a Kingston, in Jamaica, ho sentito un bambino di neppure dieci anni suonare una specie di batteria per strada, in pratica l’unica cosa che funzionava era un piatto. Se parliamo di ritmo credo che lui e Buddy Rich siano le cose più incredibili che ho visto in vita mia. Quindi sì le sorprese ci sono sempre”.

Segue dichiarazione di amore all’Italia, alla sua città adottiva (Cortona) e al glorioso popolo italiano che tiene duro anche in momenti di crisi, rispettando il proprio passato. Segue anche un appello, che ancora una volta suona sincero e appassionato.

“Sai una cosa? Sono davvero molto emozionato di suonare in Italia con il mio gruppo, spero davvero che la gente esca di casa e venga ad ascoltarci. Ogni volta non vedo l’ora di suonare con questi grandi musicisti, ma farlo in Italia per me è speciale”.

Max e Italia, that’s amore. Ma la prima volta in Italia – chiediamo – quando è stata?

“Durante il tour di Born in the Usa, nel 1985, a Torino”.

Ehmmm, no, signor Weinberg, nel 1985 siete venuti a Milano. Data secca, prima italiana di sempre. Torino è stato l’11 giugno del 1988.

“Fammi pensare. Potresti avere ragione”.

Almeno su questo abbiamo ragione, sì. I tatuaggi nel cuore non sbagliano mai, Mighty Max.

 

ANTONIO GRAMENTIERI

 

 

MAX WEINBERG QUINTET

Max Weinberg – batteria

Dave Kikoski – piano

Cameron Brown – contrabbasso

John Bailey – tromba

Brandon Wright – sax

 

Saranno a Brisighella in Piazza Carducci per Strade Blu l’8 agosto, ore 21 ingresso gratuito. Info: stradeblu.org