L’Italia alla conquista di PJ Harvey

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Se fossimo responsabili marketing-marchette-comunicazione di Expo, grideremmo all’Italia che con conquista il mondo con le proprie eccellenze. Già, perché nel nuovissimo disco di PJ Harvey il Belpaese si fa sentire, eccome: a dettare legge in ben quattro brani di The Hope Six Demolition Project, troviamo nientemeno che Enrico Gabrielli dei Calibro 35 e Alessandro “Asso” Stefana dei Guano Padano nonché chitarrista/collaboratore prediletto di Vinicio Capossela – quest’ultimo, suggerisce Google, pare sia in procinto di accompagnare la rocker anche dal vivo. Sarcasmo Expo a parte, vi è di che esserne orgogliosi che sicuri talenti nostrani come questi due siano riconosciti e ricercati da un nome di caratura mondiale come PJ.

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Per il resto, The Hope Six Demolition Project è praticamente Let England Shake (2011) parte seconda cinque anni dopo, e se possibile ancora più barricadiero e infuriato del precedente. Anche migliore, forse. Polly Jane, principessa del Dorset, si è messa ancora l’elmetto ed è andata di nuovo dov’è pericoloso recarsi, concependo il disco come fosse un diario della linea del fuoco – difatti è frutto di suoi ripetuti viaggi con il fotografo/regista Seamus Murphy in fronti caldi del Pianeta Terra: il Kosovo, l’Afghanistan e i ghetti o basket o crack di Washington, città che sebbene coccoli i politicanti Yankee è anche quella con le periferie più colme di disadattati che vi siano nella terra dei liberi e casa dei valorosi. Contingente italiano a parte, qui l’artista inglese si circonda dei suoi fedeli servitori, che vale a dire John Parish, Flood, l’ex Bad Seed Mick Harvey e il duo Gallon Drunk James Johnston/Terry Edwards. Messaggio in codice poco velato che tradotto significa: se si va alla guerra, si va con l’artiglieria pesante.

PJ Harvey & John Parish
PJ Harvey & John Parish

Il Corrispondente ufficiale della canzone di guerra, come ella si auto definì già ai tempi di Let England Shake, qui di battaglie ne vince molte – con il suo personale Risiko che non da tregua. Una guerra nello show biz, quella di PJ Harvey, che dura ormai da un quarto di secolo e che se dopo tutto questo tempo riesce ancora a essere convinta e a convincere come dimostra The Hope Six Demolition Project significa che l’artista in questione è davvero speciale. Già, perché l’emozione che scatenano il tribalismo di The Wheel, l’angoscia di Medicinals, il protest folk di Near The Memorials To Vietnam And Lincoln, la lotta armata del capolavoro River Anacostia con in epilogo il traditional gospel Wade In The Water (l’hanno fatto in tanti grandissimi: Staple Singers, Michelle Shocked, Bob Dylan, Dr. John, James Brown, Chambers Brothers, Judy Henske, Robert Plant, Harvey Mandel, Odetta – ripescatevi le loro versioni, e godrete molto…) oppure il piglio corale di The Ministry Of Defence con tanto di Linton Kwesi Johnson cameo – dicevamo, l’emozione che scatenano non è cosa per gente improvvisata: qui vivono o rivivono la Magic Band di Captain Beefheart, il blues, il free jazz e la new wave nel pulsare di una musica che PJ Harvey ha pensato e voluto con tutte le sue forze rendere personale. Polly Jane, insomma, è andata alla guerra – e a suo modo l’ha proprio vinta sebbene più che esultare qui vi sia da ascoltare con l’attenzione ben sintonizzata.

CICO CASARTELLI

PJ HARVEY – The Hope Six Demolition Project (Island Records/Universal)

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