Bob Weir, storie di ordinario cowboy

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Per chi ascolta musica in un certo modo, per chi compra ancora i dischi, per chi… insomma, il ritorno di Bob Weir significava uno degli album più attesi del 2016. Blue Mountain in questi giorni lo vedete ovunque: pubblicità appena ti giri di qui o di là e addirittura copertine di prestigiosi mensili che non ti aspetteresti (vedi l’inglese Uncut). Diffidate: si tratta solo che la casa discografica ha investito in marketing e advertisement, nulla di più. L’operazione è ad ampio raggio e qui si sta solo assistendo all’ultima puntata di una serie, del resto: il nome Grateful Dead con i concerti dello scorso anno è schizzato in alto in termini di quotazioni e fra l’altro è evidente che ci sia una macchinazione per portare (scusate la parolaccia) il brand GD verso i più giovani, vedi Dead & Company con coinvolto John Mayer oppure il mastodontico tributo pieno di nomi hip non stagionati uscito pochi mesi fa, Day Of The Dead. Tutto lecito, sia chiaro – ma il vecchio Dead-filo un po’ di puzza di bruciato la sente.

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Bob Weir ha presentato Blue Mountain come il suo cowboy album e visto che Bobby, dei vari Dead, è sempre stato il più cowboy di tutti (vedi le immortali cover di Marty Robbins, di Merle Haggard, di Johnny Cash o di Kris Kristofferson, per esempio) la cosa ha fatto subito rizzare le antenne – che ascoltato il disco, ahinoi, si ammosciano non poco. Qui, gente, non siamo ai livelli delle sue più belle opere parallele al Morto, vedi l’esordio Ace (1972) o lo strepitoso Evening Moods (2000) con i Ratdog: qui, invece, Bob Weir si piazza a mezz’aria, tenta di accontentare un po’ del suo vecchio pubblico ma gioca anche all’update di suono, francamente un po’ forzoso. Parte della squadra che lo circonda è il vero problema che cogliamo: Aaron Dessner, chitarrista e mente musicale dei National che spadroneggia ovunque, Josh Ritter, cantautore che affianca Bob nella scrittura dei brani (lo storico collaboratore/paroliere John Perry Barlow è in cattive condizioni di salute, raccontano le cronache) e Josh Kaufman, produttore/songwriter anche lui coinvolto nella scrittura e già lungamente collaboratore dei National. Le intenzioni, insomma, paiono chiare: attirare nuovo pubblico, forse anche svecchiarsi. E, a nostro modesto giudizio, il risultato non è dei più brillanti – anzi.

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Nei propri dodici pezzi l’album sembra perdersi in un dedalo di intenzioni e di sound che non hanno molto di Grateful Dead, semmai rincorre l’alternative/indie americano con vago sapore roots degli ultimi quindici anni, con in testa i già nominati National ma anche i Dawes e i My Morning Jacket: il problema vero è che un “classico” come Bob Weir non può mettersi in spudorata scia delle nuove leve, perché nove su dieci il risultato non convince. Blue Mountain, di questo, sembra esserne il chiaro paradigma. Beninteso, non che tutto suoni male, tutt’altro, ma è dove si ritrova il vecchio cuore folkie dell’artista che il lavoro sembra prendere la giusta quota: vedi la spartanissima title track, l’altrettanto all’osso Ki-Yi Bossie, dove sfavilla Ramblin’ Jack Elliott ospite allo yodelin’ arrangiato come se fosse un eco lontano, Only A River, buon rip off del vecchio Ace, l’eccellente country giusto lì fra Merle e Johnny Gonesville oppure Lay My Lily Down, spacciata per pezzo originale ma che in verità è la copia carbone di Darling Coreytraditional che per convenzione si riconduce a Bill Monroe e ai suoi Monroe Brothers (per chi sia interessato, consigliamo caldamente la versione di John Renbourn e Dorris Henderson incisa nel 1965 in There You Go! – stupenda!).

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Le note dolenti arrivano quando la suddetta triade Dessner-Ritter-Kaufman prende inesorabilmente piede, lasciando la netta sensazione che Bob Weir sia lì a cantare roba non sua, come se fosse lì a fare il soprammobile nel progetto di qualcun altro: vedi il trionfo di delay, manierismi ed enfasi che si colgono un po’ dappertutto udendo Gallop On The Run, qui fa capolino anche Bryce Dessner sempre dei National, Storm Country, superfluo duetto hyper-country con Dan Goodwin, oppure la nenia One More River To Cross – tutta musica che siamo piuttosto certi non resterà negli annali del grande sogno americano-musicale firmato Grateful Dead. Tant’è: Bob Weir il suo posto nella Storia con la maiuscola se l’è già guadagnato che è un piacere!

CICO CASARTELLI

BOB WEIR – Blue Mountain (Columbia-Legacy)

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