Moni Ovadia in scena con ‘Dio ride’: racconti spiritual-umoristico-paradossali “di quel popolo sospeso tra cielo e terra”

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Moni Ovadia_Dio ride_Nish Koshe _Ph Umberto Favretto

A 25 anni da ‘Oylem Goylem’ (1993) Moni Ovadia porta in scena, lunedì 18 novembre, alle ore 21, al Teatro Duse di Bologna, il suo nuovo spettacolo ‘Dio ride’, il cui sottotitolo ‘Nish Koshe’ in yiddish vuol dire ‘così così’.

Lo spettacolo, con le musiche dal vivo della Moni Ovadia Stage Orchestra ha per protagonista Simkha Rabinovich il vecchio ebreo errante che, insieme a cinque musicanti vagabondi, sale di nuovo a bordo della zattera per raccontare nuove storie di una gente esiliata e canta le canzoni, tristi, allegre e nostalgiche, “di quel popolo sospeso fra cielo e terra in permanente attesa che illuminò e diede gloria alla diaspora.

Moni Ovadia_Dio ride_Nish Koshe_ph Umberto Favretto

Dio ride’ è la storia, è un lungo viaggio quasi senza fine che Moni Ovadia ha voluto raccontarci. Lo abbiamo raggiunto telefonicamente, viaggiava su un treno diretto non si sa dove. Dettagli. Ci ha concesso il suo tempo.

Dopo un quarto di secolo di erranza Simkha Rabinovich e i suoi compagni di strada ritornano a teatro con una nuova rappresentazione, sempre in chiave umoristica, della cultura ebraica a tutto tondo, ricca di storie, canzoni e aneddoti. Cosa la distingue dalla precedente ‘Oylem Goylem’?
«Diciamo che anche questo è uno spettacolo semplice, di matrice minimale, si tratta di un narratore che racconta e canta e di musicisti partecipi sia con la loro presenza e attenzione oltre che con i loro strumenti. Ha una struttura drammaturgica molto semplice, è come quella di Oylem Goylem, il narratore tra i musicisti, questa volta però il tema è un altro, ha slanci diversi con ingressi nella dimensione spirituale, è uno spettacolo sulla spiritualità umoristico-paradossale».

Moni Ovadia, attore, regista, scrittore, cantante e musicista. Le musiche si ispirano alla cultura yddish o subiscono contaminazioni di altre culture come quelle folk tipiche dei balcani?
«Le musiche sono prevalentemente musiche della tradizione ebraica del centro est Europa e intingono da quella tradizione, poi noi le abbiamo arrangiate alla nostra maniera sistemate con un gusto nostro».

Anche ciarde che ricordano la tradizione gitana?
«Sono musiche della tradizione centro est europea ebraica e qualche cosa sì, anche gitana, perché alla fine dei conti gli ebrei ed i rom si trovarono nella stessa condizione, sempre esuli, sempre emarginati, questo sino alla fine della seconda guerra mondiale e da lì, dopo qualche lustro, la condizione degli ebrei è cambiata rispetto a quella dei rom, questi ultimi rimangono ancora emarginati e vessati. C’è da dire che la scelta di una parte degli ebrei, e intendo i governi, di costituire uno stato ha portato a delle conseguenze devastanti, il nazionalismo. Però, attenzione, questo spettacolo, in realtà, ha uno scopo, quello di rivendicare l’esilio come condizione ideale per un uomo. Ossia, io ho una condizione che sarà in pace solo quando saremo stranieri tra gli stranieri, questo perché il nazionalismo è pestilenziale».

Moni Ovadia_Dio ride_Nish Koshe_ph Umberto Favretto

Questo eterno errare di Simka ed i suoi compagni, porta con se dei benefici salvifici, ci mostra una sorta di via per una redenzione per lo meno etica?
«Si, però la redenzione etica dell’esilio, perché questo mio spettacolo è uno spettacolo sulla spiritualità umoristico paradossale che parte da una premessa: parla di un uomo che ha errato attraverso generazioni e tempi e questa volta ritorna ad errare perché respinto, ritorna a parlare dei suoi temi dell’esilio, della sua spiritualità.
Dell’esilio e dell’etica, dell’esilio perché il mondo è cosparso di muri che si sono elevati in modo crudele a segregare e respingere uomini che cercano aiuto e sostegno. Ecco, è questo il tema, e tra questi muri quello che si traduce in “muro peggiore” è quello della Palestina, nella fattispecie il popolo palestinese segregato, colonizzato, occupato e vessato ininterrottamente perchè ha imboccato la via del nazionalismo e l’ebreo – aggiunge riferendosi al governo ed ai suoi provvedimenti – quando imbocca la strada del nazionalismo non è diverso dagli altri nazionalisti, e purtoppo assume dei tratti di aspra violenza, arroganza e crudeltà. Quindi io sono tornato a raccontare l’esilio e le glorie dell’esilio proprio perchè in realtà la redenzione passa per una condizione di stranieri tra gli stranieri».

Quindi questa vuole essere una protesta ma anche una sorta di “ridestiamo le coscienze” che porta anche a cercare di sopperire a questo allarmismo sociale che si sta creando ed anche enfatizzando da parte dei media?
«Si, i media enfatizzano e nel mondo vediamo rinascere i nazionalismi e le barriere e nel mentre si celebra il trentesimo anniversario della caduta del muro di Berlino sorgono muri dappertutto, quindi l’ipocrisia dell’occidente è quella di condannare i muri a parole e poi nei fatti di ergerli a partire da Trump, Orban o dai Paesi di Visegrad e per finire con quello, che per me è il peggiore, della Palestina perchè mostra chiaramente quante sofferenze provocano i muri. I muri sono innalzati dai nazionalisti, intendiamoci – precisa Ovadia – il nazionalismo non importa chi lo pratichi, chiunque lo pratica finisce per diventare vessatore, colonialista e così facendo finisce per creare il male che infierisce sugli essere umani innocenti».

Lo spettacolo vuole essere manifesto di protesta e stigmatizzazione delle vicende del passato come anche dei recenti fatti di politica internazionale?
«Lo spettacolo è fatto di musiche e canti, storielle ed anche di momenti anedottici e riflessioni, c’è anche un momento lirico tragico di piccole letture, ma lo spettacolo è diciamo molto pirotecnico, non è uno spettacolo di protesta, si stigmatizza sì la shoah ed il sionismo in quanto nazionalismo riferito non agli ebrei ma ai governanti e agli apparati militari che praticano questa politica scellerata nei confronti di persone innocenti. Il tratto caratteristico del mio cammino – tiene a precisare Ovadia – è lo humor. L’umorismo, il paradosso, poi anche la riflessione spirituale su quel crinale che è fra l’esistenza del divino e la sua inesistenza, di un divino manipolato dagli uomini, strumentalizzato anche dalla religione per i propri scopi ignobili, e quindi si stigmatizza anche questo. E’ un po’ questa la sintesi, è tutto questo che viene raccontato, l’umorismo e il paradosso attraverso la riflessione, con molta musica e molte canzoni».

Nish Koshe’ in yiddish vuol dire ‘così così’. Cosa intende con quel “così così”?
«Perchè è così, la vita procede non bene, procede male, c’è sempre un periodo negativo poi ne arriva un altro e si spera sempre che finisca invece le cose poi vanno così così, non vanno mai totalmente male o totalmente bene. E’ una prospettiva, è come guardare il bicchiere e vederlo sia mezzo pieno che mezzo vuoto».

Moni Ovadia_Dio ride_Nish Koshe_ph Umberto Favretto

Ambientazione scenica: il protagonista con i suoi compagni si trovano a bordo di una zattera, questa vuole essere un riferimento all’opera del pittore Gericault, come sinonimo di sopravvivenza, di speranza, di libertà?
«Diciamo più che una zattera è un piccolo palcoscenico da cabaret espressionista, una piccola zattera, un piccolo palcoscenico teatrale che può diventare luogo di carità, luogo di comprensione perché come dice Gigi Proietti – nei versi di apertura di un sonetto in romanesco che si intitola “Viva er treatro” -: “Viva er teatro, dove tutto è finto, ma niente c’è de farzo (…). Il teatro attraverso la pietas della finzione dice la verità, può dire la verità per gli uomini e non come la verità dei chierici o dei politici che è distruttiva. La verità del teatro permette all’uomo di guardare in faccia la medusa e la finzione è come lo scudo di Perseo, protegge dal volto della medusa, riflette e permette di accedere alla verità senza rimanere pietrificati, questo perché c’è l’intercessione della finzione, della rappresentazione scenica».

Ritorniamo al presente, si edificano muri che dividono nazioni, si erigono muri virtuali se vogliamo anche più letali dei primi perché diretti, che parlano il linguaggio dei giovani e al contempo fomentano l’istigazione all’odio, un malessere che sta degenerando perché frutto anche della divulgazione di notizie e di comportamenti strumentali dovuti altresì alla policy di alcuni governi. Da qui, la comunità ebraica avverte la minaccia reale che si ritorni al nazionalismo esasperato?
«No, io credo che l’antisemitismo sia una latenza che appartiene ad una cultura che non ha fatto i conti con se stessa ma per parlare di questo ci vorrebbe un ragionamento molto lungo e complesso. Credo che l’antisemitismo sia una latenza che ogni tanto emerge, non credo che accadrà quello, perché accada quello bisogna che gli antisemiti siano al potere e non che scrivano quelle porcherie sui social media».

Moni Ovadia racconta il suo spettacolo con delicata ironia attraverso un’immersione suggestiva di narrazioni intervallate da canti e musiche folkloristiche arrangiate alla “loro maniera”. Con noi fa di più, ricostruisce e tramanda un pezzo di storia da non dimenticare e da scongiurarne il ritorno, lasciandoci altresì l’idea di poterci incontrare ancora per proseguire la conversazione con “un ragionamento molto più lungo e complesso”.

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