L’Alsir, la Romagna raccontata da Iacopo Gardelli

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Chi è avvezzo frequentare la riviera romagnola ormai lo sa: c’è un modo di vivere la spiaggia che è tutto nostro. Ogni estate, l’ombrellone accanto può ospitare qualcuno di nuovo e ogni anno è una scoperta, una nuova amicizia, spesso dalla durata breve ma intensa, perché non si ha mai la garanzia che si ripeta. È proprio questo particolare modo di vivere l’estate in Romagna che Iacopo Gardelli racconta nel suo L’Alsir. Romanzo balneare. Un romanzo unico nel suo genere, che offre il ritratto di una Romagna sotto il sole, ma anche di un Paese, con le sue peculiarità, i suoi problemi e le sue ricadute.

“Ho incominciato a scrivere il romanzo più o meno alla fine del 2019”, racconta Iacopo Gardelli. “Da un lato c’era sicuramente il desiderio di scrivere di una cosa che amavo e amo molto, vale a dire il nostro tipico modo di vivere la spiaggia e lo stile di vita che emerge nei bagni. Si tratta di una peculiarità tutta romagnola: i bagni al mare diventano dei condomini e anno dopo anno i rapporti cambiano, passando da un’estate all’altra. È un modo particolare di vivere le relazioni. Dall’altro lato”, continua l’autore, “c’era un po’ l’esigenza di conoscermi meglio: credo che, in un certo senso, si scrivano libri per conoscere se stessi e la realtà che ci circonda. Infine, c’era l’interesse di descrivere il cambiamento di un Paese”.

Infatti, sullo sfondo della vita da spiaggia dei protagonisti, emerge un’Italia che cambia dal 1994 al 2012.

“L’intenzione era quella di descrivere, oltre alla storia dei protagonisti, il cambiamento di un Paese esattamente così come viene vissuto in provincia: non si assiste in prima persona a eventi importanti ma si sentono, si chiacchierano e la storia emerge da spiragli di conversazione. Ho scelto questo periodo un po’ perché è il periodo della mia infanzia e un po’ perché credo che in questo ventennio ci siano i germi dell’Italia di oggi. Credo che questi vent’anni anni siano stati decisivi per un cambiamento in peggio del Paese: a partire dal trauma di Mani Pulite, una serie di persone, come il personaggio di Ivan, che avevano punti di riferimento ideologici fissi, sicuri, chiari si trovano privi di punti di riferimento e diviene più difficile orientarsi nella politica degli anni successivi. Si passa quindi da un’Italia che stava vivendo l’onda lunga del benessere degli anni Ottanta a un Paese in piena decadenza politica ma soprattutto economica”.

Quanto di te, della tua vita e delle persone che hai conosciuto ha influenzato la creazione dei protagonisti del romanzo?

“Credo che il rischio dell’autobiografia sia presente in ogni autore: anche se non vuoi, delle parti di te emergono. I personaggi di cui parlo sono ispirati ad alcune persone, anche se chiaramente, come sempre, avviene una trasfigurazione. Sicuramente ci sono tratti autobiografici in Guido, così come ci sono un mosaico di persone che conosco negli altri personaggi. Con i tre protagonisti più giovani ho voluto descrivere altrettanti tipi che ho spesso incontrato nella mia vita: il rassegnato come Guido, che si chiude in provincia alla ricerca di un lavoro pur che sia per restare a galla; la persona come Elena che non riesce a trovare una vocazione e che rimane un mistero irrisolto; oppure c’è la parte più attiva, raffigurata da Alessandro, che lascia il Paese in cerca di possibilità migliori. Volevo fare una sorta di compendio delle possibilità della nostra generazione”.

La peculiarità del romanzo, al di là dell’ambientazione e dei suoi personaggi, è proprio la lingua. Termini del dialetto romagnolo emergono costantemente, più nel discorso indiretto che in quello diretto. Come mai questa scelta?

“Non si trova dialetto nel discorso diretto, perché sarebbe stato una falsificazione: oggi non si parla dialetto, può essere presente in una determinata fascia anagrafica, ma è sempre più risicato. Quindi ho fatto una scelta inversa: ho cercato di creare una lingua narrativa che però è alla terza persona. Solamente nel narratore c’è quel pastiche che mette assieme termini romagnoli italianizzati e termini colloquiali, mentre nel discorso diretto l’italiano è più o meno scolastico. Ho operato questa scelta per vari motivi. Il primo sicuramente è un motivo personale: ho sempre più l’impressione che nel romanzo italiano contemporaneo si stia andando verso una scomparsa dello stile. Se non si cura la lingua, si rischia di scrivere romanzi tutti uguali. In questo caso, la lingua è la materia concreta di cui si fa il romanzo e la sfida per me è stata proprio quella di trovare uno stile convincente. Io non sono dialettofono, lo comprendo ma non so parlarlo e scriverlo, come tanti della nostra generazione. Quindi mi sono inventato questa lingua leggendo tre dizionari e innumerevoli poeti: Tonino Guerra, Tolmino Baldassari, Nevio Spadoni, Nino Pedretti, Raffaello Baldini e tanti altri. Sempre meno persone parleranno il dialetto puro e saranno in grado di comprenderlo, nel giro di due generazioni questo patrimonio rischia di perdersi. Perciò, ho pensato che la strategia più feconda potesse essere quella di allargare le maglie dell’italiano per far sì che ospitasse termini romagnoli. Così forse qualche termine riuscirà a sopravvivere anche nella lingua colloquiale”.

In questo pastiche mette insieme termini dialettali di diverse province, dal ravennate, al riminese, al cesenate…

“Non volevo fare un discorso filologico o di salvaguardia della lingua pura del dialetto (che già fa meravigliosamente l’Istituto Friedrich Schürr). Ho fatto un discorso di invenzione e di creazione di qualcosa di inedito. Per fare questo chiaramente ho scavalcato le differenze quasi municipali tra città e città. Non ho rispettato le singole particolarità, è una lingua artistica”.

Una lingua artistica che guida il lettore capitolo per capitolo, anno per anno, senza mai essere di difficile interpretazione. La lettura scorre piacevole e ogni termine dialettale è collocato là dove può essere compreso da chiunque, permettendo così di entrare, attraverso la lingua, in un mondo tutto particolare. Ai lettori romagnoli non potrà che sfuggire un sorriso, nel ricordare episodi simili della propria infanzia, con un pizzico di malinconia per chi ormai è lontano.