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Il Teatro di Rifredi aveva già messo in scena altri testi, nel recente passato, del drammaturgo francese Remi De Vos, come Alpenstock e Tre rotture. La doverosa premessa è che i suoi testi non ci hanno mai esaltato sempre sul filo del grottesco, del paradosso, della parabola metaforica per sottolineare altro, nel solco della fiaba didascalica per evidenziare, semplicisticamente, fenomeni e situazioni. La messinscena delle due precedenti drammaturgie, come di quest’ultimo Occidente, sono sempre di Angelo Savelli e infatti si assomigliano, i colori sparati e decisi, che ne fanno quasi un fumetto adolescenziale, i capitoli nei quali è suddiviso il plot che si susseguono in una sorta di serie tv sempre a metà strada tra la risata abortita e la profondità mal esposta. I temi sono sempre da massimi sistemi: Alpenstock ci parlava di razzismo e Tre rotture di famiglia. Ovviamente fin dall’inizio sappiamo da che parte è giusto stare e da quale è il drammaturgo; insomma si sa tutto fin dal principio e basta uniformarsi al pensiero intavolato per tornarsene a casa consolidati nelle nostre certezze in modo consolatorio. Spazio al dissenso non se ne intravede. Tutto è così netto, da una parte i buoni, dall’altra i cattivi. È facile posizionarsi. E anche annoiarsi.

Occidente fa uno scarto ulteriore nell’abisso, ha tutte queste caratteristiche-qualità più una pressante ideologia di fondo che traspare e tracima da ogni scena. Del nostro occidente (ovviamente se ne parla male perché l’intellettuale lo accusa di ogni nefandezza mentre continua a viverci e sollazzarsi all’interno delle sue democrazie così corrotte inneggiando alla sua dissoluzione: una moda, un pensiero per partito preso) se ne parla in maniera molto superficiale, senza alcuna analisi né riflessione, con generalizzazioni spicciole, da bar; in questo caso i francesi (noi, gli occidentali, i pochi per il tutto) che sono tutti fascisti e razzisti, che ce l’hanno contro i bravi arabi e contro gli jugoslavi. Quindi le teorie (quasi ossessioni di De Vos) sulle quali continuare a battere il ferro sono sempre le stesse: la paura degli altri e la ridicolizzazione degli stereotipi culturali. Occidente è più un affresco, scritto male, sulla violenza domestica e la cartina dell’Europa che sta sul fondale, con i suoi confini che si spostano dall’anno mille fino ad oggi, non fa altro che confondere le acque e farci sperare che qualcosa di geopolitico prima della fine esca fuori. Il marito francese ovviamente è un ricettacolo della peggiore specie, si ubriaca e offende la moglie (i due attori, Ciro Masella e Leonarda Saffi fanno del loro meglio ma i dialoghi non li aiutano proprio). È il linguaggio che definire colorito è veramente un eufemismo e che doveva essere vietato ai più piccoli proprio per la virulenza sfacciata e questa animosità arrogante. E non si tratta di essere moralisti né bacchettoni, qui è il caso di usare termini come scurrile, volgare all’ennesima potenza, sboccato, un turpiloquio ridondante, indecente, laido, sconcio e pure inutilmente.

L’uomo medio francese (la rappresentazione di tutti noi nell’ottica dell’autore evidentemente) si iscrive al Fronte Nazionale e beve e offende pesantemente la compagna ma allo stesso tempo, pur minacciandola di violenze fisiche, ne ha paura ed è pavido abbaiando solamente e poi ritraendosi nel suo guscio d’impotenza. Al contrario c’è l’esaltazione dell’amico arabo che è coraggioso perché si scontra con gli slavi mentre l’amico francese scappa e non lo aiuta risultando anche meschino e viscido. Una drammaturgia con davvero tanti limiti che si risolve con la più classica delle conclusioni di questo tipo di testi-comizio politico che sfocia nel gender: l’occidentale ce l’ha con l’arabo e con l’africano per l’invidia del pene. Ecco, alla fine ci siamo arrivati, era così semplice, non si parla di economia, di globalizzazione, di aumento della popolazione mondiale, di flussi migratori, di problemi di ordine pubblico, di insicurezza sociale, di disoccupazione, di periferie, di cronaca nera, di illegalità ma di invidia del pene. Era così banale la soluzione che era davanti agli occhi di tutti e ci abbagliava e non ci permetteva pienamente di coglierla. Un testo che nel clima dei femminicidi che stiamo vivendo forse non era proprio il caso di mettere in scena. In definitiva possiamo affermare che Remi De Vos non è Sergio Blanco né Stefano Massini né Milo Rau. È un mistero. Volendogli molto bene potremmo definire Occidente un testo superficiale. Forse De Vos dovrebbe rileggersi Lo straniero di Camus.
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