La cerimonia del fango. Intervista a Menoventi

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ph Gian Marco Magnani

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Primo anniversario dell’alluvione in Romagna: giovedì 16 maggio, nella piazza centrale della città di Faenza, avrà luogo un rito collettivo, al termine del progetto teatrale La cerimonia del fango a cura di Menoventi.

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Nei vostri materiali parlate della «creazione di un lungo percorso di riflessione attiva e comunitaria attraverso il linguaggio del teatro». In che modo ciò avverrà? E soprattutto: quali attenzione porrete in essere per stare nel sottile equilibrio fra la salvaguardia delle specificità delle esperienze individuali, soprattutto in relazione a un evento tanto traumatico quale l’alluvione, ed evitare le parole in libertà, o peggio gli sbrodolamenti emotivi, che forse nella vita ma certamente nell’arte sono oltremodo nefasti?

Questo percorso è attivo da mesi e proprio la prima fase, costituita dai laboratori MEME, è la colonna portante del progetto. Con adulti, bambini e ragazzi abbiamo iniziato nel mese di gennaio un lungo percorso a cadenza settimanale. Questi incontri preparatori hanno permesso ai partecipanti di raccontare in un ambiente protetto le loro esperienze più dolorose, di farlo insieme ad altre persone che hanno vissuto un trauma simile ma anche di fronte a cittadini fortunati che hanno assistito alla catastrofe senza esserne direttamente coinvolti. Potrebbe sembrare un cammino puramente terapeutico, ma non è andata così, c’è sempre stato il teatro come tramite; il racconto di questi avvenimenti è sempre mediato dall’espressione artistica e puntualmente alternato alla pratica teatrale.

Abbiamo vissuto momenti di altissima densità emotiva che non hanno nulla a che fare con lo “sbrodolamento” melenso. Il pianto faceva parte del gioco, per forza di cose, ma la forza sincera e vitale di questi racconti era tale da annullare qualsiasi vittimismo.

In seguito c’è stato (anzi, ad oggi è ancora in corso) il nostro intervento, che intende dare una forma pubblica alle testimonianze. Le abbiamo raccolte meticolosamente e ora stiamo creando dei collage, delle azioni, delle brevi partiture che partono dai racconti intimi e virano verso una forma pubblica e condivisa con la città.

Le altre realtà coinvolte nella cerimonia porteranno un segno della loro esperienza per condividerla con la collettività: si porteranno in piazza alcuni oggetti sopravvissuti alla catastrofe, altri che invece sono affondati. Le associazioni, le scuole, i musei, le botteghe ceramiche e tutti i partecipanti sono invitati a mostrare qualcosa in un tempo breve; la rapidità imposta agli interventi non garantisce solo una durata sostenibile e un ritmo scorrevole, ma vuole scansare il possibile – e comprensibile – impulso verso la rivendicazione personale.

Siamo felici di constatare che le realtà chiamate in causa hanno capito perfettamente lo spirito del progetto, non era scontato.

 

 

Il momento conclusivo è da voi definito «un grande rito collettivo e partecipato». I legami tra rito e teatro, si sa, sono antichi quanto il teatro stesso. Penso a Grotowski, che nella radicale rivoluzione che ha compiuto, nel secolo scorso, auspicava un rito «fondato non sulla fede ma sull’atto». Vi riconoscete in questa accezione? Se sì: quali atti costituiranno sia il prima del vostro rito che il momento finale?

Gli atti sono proprio i segni citati sopra. Assodato un timing rigoroso, le persone coinvolte hanno libertà espressiva, ognuno condivide ciò che si sente di condividere. Questi atti sono frutto delle specificità di ogni realtà che prenderà parte al rituale, ognuno continuerà ad avere a che fare con ciò che ama fare. I musicisti suoneranno, i ceramisti e i musei porteranno le loro opere (alcune in frantumi, alcune salvate dalla furia dell’acqua), i poeti ci hanno regalato alcuni preziosi versi, le associazioni sportive giungeranno in piazza con le biciclette o lanceranno in aria i palloni da calcio, gli agricoltori pianteranno simbolicamente un nuovo albero… e così via.

I partecipanti ai laboratori MEME condivideranno alcuni materiali emersi dai percorsi che raccontavamo prima, e insieme alle loro guide e a Consuelo saranno gli officianti del rito.

Voi siete teatranti, non assistenti sociali né psicologi. Cosa porterete, del vostro fare arte, in questa creazione? E in che modo essa vi sta nutrendo, come donne e uomini di scena?

La prima cosa che portiamo è l’idea di creare questo rito per la città in cui viviamo. Ci sembrava strano proseguire le nostre attività come ogni anno senza creare uno spazio di riflessione su quello che è accaduto attorno a noi. Abbiamo voluto mettere a servizio quello che sappiamo fare meglio: il nostro fare artistico.

E’ difficile dire cosa portiamo del nostro fare artistico con precisione perché ci sembra che questo sia un progetto che concerne l’identità e tutto ciò che riguarda la vita: la capacità di osservare, di mettere in relazione, di cogliere spunti anche da situazioni o conversazioni che riguardano altro. Ci poniamo continuamente domande, ci interroghiamo a vicenda.

Ogni decisione su questo percorso è continuamente messa in discussione, passata al setaccio e poi realizzata; questo è il procedimento di base che lo accumuna alle altre creazioni della compagnia.

Convergono nel lavoro le letture delle pubblicazioni uscite in questi mesi sull’argomento, quelle suggerite da chi ha partecipato ai laboratori o da chi si è appassionato all’impresa senza farne parte. Anche le mostre viste in città, fra cui quella curata da Giovanni Gardini Dove abita l’uomo, che ci ha fatto incontrare la foto di Andrea Bernabini che è diventata l’immagine di locandina. È una foto in cui convergono il fango asciutto, con le sue crepe, e l’azzurro del cielo riflesso nell’acqua. Devastazione e rinascita.

Mettiamo anche a frutto alcune collaborazioni nate da precedenti esperienze di MEME o di alcune produzioni dei nostri lavori teatrali: il rapporto con Paolo Banzola, che ha curato la grafica, con Andrea Montesi, che si occuperà dell’allestimento del fiume-serpente disegnato in piazza in collaborazione con Sofia Banzola, con Daniele Lambertini, che sta componendo musiche ad hoc, oltre al confronto con le guide dei laboratori Ermelinda Nasuto e Beatrice Cevolani.

Facciamo tesoro del rapporto che si instaura con le persone coinvolte nei laboratori e nelle altre creazioni, cercando sempre di renderle partecipi di un percorso che va dall’idea alla realizzazione. I pensieri dei singoli vengono condivisi e rielaborati in un’opera di assemblaggio, collage, riscrittura.

Il nutrimento passa attraverso le persone che incontriamo, le loro storie, i vissuti, i modi di essere che prima non conoscevamo e a cui ci avviciniamo. Come tutti i romagnoli siamo rimasti a bocca aperta di fronte alla forza delle persone che hanno perso tutto. La loro dignità, l’ironia lucida, la tenacia che dimostrano ancora oggi è stupefacente. E come tutti i romagnoli abbiamo assistito a una solidarietà che non pensavamo più possibile. Le persone – perlopiù giovanissime – che sono accorse da tutte le parti per dare una mano, restando nell’anonimato, seguendo solo l’impulso di dare una mano, è un insegnamento che non vogliamo dimenticare. La cerimonia del fango serve anche a questo, a non disperdere quell’energia solidale che ha salvato la città. Non stiamo esagerando, si è innescato qualcosa di straordinario che ha salvato molte vite, come il surfista faentino che faceva la spola tra i tetti delle case con la sua tavola, rischiando l’ipotermia, e che ha tratto in salvo sedici persone intrappolate, alcune prossime alla fine. Come si chiama il surfista? Qualcuno a Faenza lo ricorda, molti lo ignorano. Lui come le persone che hanno spalato melma per settimane sono venuti per aiutare, non per il quarto d’ora di celebrità.

 

 

In questo progetto coinvolgerete diverse realtà del territorio faentino. Sapendo che l’azione culturale è spesso molto parcellizzata e che le occasioni di collaborazione sono rare, anche in un piccolo territorio di provincia come Faenza, quali difficoltà e quali sorprese ha portato, questa vostra chiamata? 

Abbiamo constatato che a Faenza c’è un tessuto culturale molto vivace e collaborativo, nonostante le dimensioni della città. Forse anche per questo abbiamo scelto di vivere qui, quasi venti anni fa.

La sorpresa è stata quella di incontrare una vasta adesione anche su un tema così delicato, che rende il progetto fragile e facilmente attaccabile. Camminiamo sul vetro, stiamo parlando di vite spezzate, ma nonostante questo molte realtà cittadine hanno riposto con trasporto, dimostrando grande coraggio.

Abbiamo cominciato coinvolgendo solo le realtà culturali colpite dall’alluvione, ma poi spontaneamente si è ampliato il ventaglio e ora l’ambito culturale è solo uno dei numerosi elementi che animeranno i cortei e la piazza. Non riusciremo a essere esaustivi, forse abbiamo dimenticato qualcuno, ma queste sono le forze che potevamo mettere in campo, non ci stiamo certo risparmiando. Ci auguriamo che questo rito possa far sentire partecipe anche chi verrà come semplice curioso, proprio perché si tratta di una cerimonia e non di uno spettacolo. Non ci sarà frontalità, alcuni atti saranno condivisi da tutti, noi siamo i cerimonieri, non i protagonisti.

Vogliamo ricordare che ancora c’è tanto da fare. La difficoltà del progetto sta nella sua portata, nell’ampiezza che è cresciuta giorno dopo giorno e che richiede molto lavoro da tutti i punti di vista.

Infine: con quale attitudine è consigliabile che una persona venga in Piazza del Popolo, giovedì 16 maggio?

Regaleremo a tutti i presenti un fiore di canna palustre (in Romagna la chiamiamo cannarella); tutti i cittadini porteranno in piazza questi fiori e al tramonto li bruceremo, sperando che questo atto possa aiutarci a bonificare in parte la palude che abbiamo in testa.
Abbiamo appena scritto un nuovo breve testo che racchiude gli intenti alla base del progetto. Lo leggeremo nei punti partenza dei sette cortei che dai quartieri devastati giungeranno in piazza. Lo leggeremo poco prima del primo passo, subito dopo aver impugnato questo fiore. Questi sono gli intenti, questo lo spirito che ci auguriamo di poter diffondere in città.

Oggi ci raduniamo nei parchi, nelle sedi delle realtà culturali e sportive, nelle scuole,
nelle botteghe, nelle strade, nei quartieri invasi dall’acqua.
Vogliamo trasformare in canto le emozioni trattenute.
Vogliamo stringerci e sentirci un’altra volta vicini per rinnovare la forza solidale
che ha tenuto in piedi la città.
Vogliamo rimarcare la dignità di chi ha perduto tutto, il sorriso di chi ha dato una mano,
la forza tenace di una collettività ritrovata, una forza che non vogliamo disperdere.

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