Cecità: realtà e immagini oltre il visibile

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Comprendere è perlopiù considerato un processo logico-razionale, il cui fine ultimo è la traduzione del mondo in significati intelligibili. Tale convinzione potrebbe aver portato a privilegiare la dimensione visibile del reale: ciò che è manifesto ha una forma chiusa, perciò immediatamente percepibile e portatrice di «senso sensato», come lo definisce il filosofo francesce Jean-Luc Nancy. Lo stesso mette in luce come questo approccio alla realtà trascuri un modo di «intendere differente», appartenente più alla sfera del sensibile che a quella della ragione e attuabile mediante un senso diverso dalla vista: l’udito. Cosa accadrebbe allora alla nostra percezione del mondo se abbassassimo per un attimo le luci e guardassimo nella penombra, guidati anche dalle nostre orecchie? 

É una domanda che potrebbe sorgere durante la visione  e l’ascolto di Le mie parole vedranno per me performance-installazione realizzata su invito del direttore artistico del TPE Andrea De Rosa nell’ambito della Stagione 2023/24 dal titolo “Cecità”. Terza parte di un percorso di indagine sul tema dello sguardo condotto negli ultimi due anni di Marco Corsucci, Le mie parole vedranno per me, realizzato insieme a Andrea Dante Benazzo qui in veste di dramaturg*, mette in crisi la nostra percezione del reale, ponendo domande sul processo di formazione dell’immagine mediante una sua sottrazione.

*figura istituzionalizzata nell’ambito del teatro tedesco, versatile, ibrida e di non facile definizione, la sua mansione varia a seconda della progettualità artistica, si occupa soprattutto di ricerca, stesura dei testi, affiancamento registico/drammaturgico.

Quando e come è nata l’urgenza di indagare il tema dello sguardo?

Marco Corsucci:  La ricerca è iniziata circa due anni fa, quando ho partecipato al bando di Biennale College 2022 con il progetto Mine-Haha. Dell’educazione fisica delle fanciulle, sull’omonimo testo di Frank Wedekind, in cui l’indagine verteva sul tema dello sguardo maschile sul corpo femminile. Questo filone è poi proseguito con Il Supermaschio, lavoro con cui ho iniziato a collaborare con Andrea Dante Benazzo, trattando lo sguardo maschile sull’uomo. Lo spazio era diviso in due parti: una platea di soli uomini e l’altra solo donne e chiunque si identificava come tale. A dividerli era uno schermo dove veniva proiettata la platea maschile. Dopo aver visto questo spettacolo, il direttore del TPE Andrea De Rosa mi ha poi inviato a proporre qualcosa sul tema della Stagione 2023/24, ovvero la “Cecità”. Mi è sembrato subito interessante che proprio mentre indagavo lo sguardo, mi venisse proposto di ragionare sulla condizione che nega la vista, perciò ho proseguito la ricerca sull’atto del guardare a partire da questo nuovo stimolo. Tuttavia, se i primi due lavori nascevano dal desiderio di approfondire lo sguardo come atto non innocente – e quindi nel suo legame con la violenza, il maschile, il controllo, il possesso e il potere – con Le mie parole vedranno per me il focus è proprio il vedere, il guardare, facendoci ispirare da Blue di Derek Jarman, Cataratta di John Berger e Citomegalovirus di Hervé Guibert. 

Due file di sedie, una di fronte all’altra, su uno spazio scenico essenziale, in penombra. Un uomo si accomoda dietro un piccolo tavolino posizionato di fronte a una testa nera artificiale. Sembrano guardarsi, ma è impossibile: lui è cieco, lei non ha occhi. In uno dei due lati, per terra, una stampante, che alla fine si scoprirà essere in breil. Una voce sintetica suggerisce al pubblico di indossare le cuffie posizionate sui braccioli delle sedute, mentre l’uomo aziona il mangiacassette sul tavolo: ne udiamo il rumore degli ingranaggi, il gracchiare del nastro e poi delle voci.

Le mie parole vedranno per me si compone di testimonianze di persone ciece o ipovedenti, che avete conosciuto entrando in contatto con l’associazione U.I.C.I (Unione Italiana Ciechi e Ipovedenti) e l’A.P.R.I. (Associazione Pro Retinopatici e Ipovedenti). Come è avvenuto questo incontro e come avete lavorato? 

Andrea Dante Benazzo: siamo partiti da una suggestione che ci è arrivata dal documentario Il paese dell’oscurità e del silenzio di Werner Herzog (1971), dedicato alla vita dei sordo-ciechi e da cui l’autore ha raccolto una serie di appunti visivi, utili poi per il suo film successivo L’enigma di Kaspar Hauser. Questo aspetto ci ha portato a considerare come metodo di creazione del nostro progetto quello della raccolta di una serie di appunti, che ci ha portato a introdurre l’idea della pagina di diario, diventata poi il mezzo di ricerca e raccolta materiali. Volendo declinare il tema della cecità in modo meno metaforico e più concreto, è nato il desiderio di incontrare davvero persone cieche e ipovedenti. Il primo che abbiam incontrato è stato Marco Bongi, direttore dell’associazione A.P.R.I, il performer protagonista in scena. Una volta raccontato il progetto alle associazioni, abbiamo fissato un primo incontro, che ha avuto un’ampia partecipazione. In seguito agli effettivi interessati abbiamo chiesto di tenere dei diari sonori, dando loro pochissime indicazioni: dire sempre la data, iniziare la primissima “pagina” dicendo il proprio nome, riflettere con noi sul tema dello sguardo. Ci interessava una cadenza quotidiana per poterci avvicinare a queste persone ma anche per generare la dimensione di solitudine che la pagina di diario spesso comporta, una condizione che poi abbiamo riproposto scenicamente tramite l’ascolto in cuffia e la penombra. Le testimonianze quotidiane ci hanno poi restituito delle suggestioni dalle quali abbiamo organizzato alcuni incontri di registrazione tramite tecnica binaurale (grazie alla collaborazione con il sound artist Federico Mezzana e il sound designer Dario Felli) che poi sono stati i nostri giorni di prova a Torino. 


Come avete scelto le persone e i diari?

Andrea Dante: la scrematura è venuta un po’ da sé, dal primo incontro in cui il gruppo era di circa quaranta persone, poi circa una quindicina hanno aderito alla raccolta dei materiali. Ciò che ci ha maggiormente colpito è stata la generosità con cui si sono raccontati, ma anche la specificità dei mondi che incontravamo. Penso ad esempio a Simona, che ci mandava dei lunghissimi audio mentre passeggiava, perché prima di diventare cieca era una guida escursionistica ambientale. Le abbiamo allora chiesto di passare un’intera giornata nei boschi di Corio, lei e Marco con i microfoni binaurali, e abbiamo registrato la passeggiata e il nostro incontro.

«I luoghi esistono anche quando non si vedono» rivela Simona, mentre lo spettatore è in una penombra che pare più densa rispetto all’inizio, forse perché ha socchiuso gli occhi, avvolto dai suoni registrati in binaurale. Ascoltandoli, ci si sente davvero immersi nell’ambiente da cui ci parla Simona. Il suono d’altronde è vibrazione e, in quanto tale, ci attraversa, è corporeo tanto da poterlo percepire anche oltre l’udito. Siamo agenti sonori e casse di risonanza di un paesaggio complesso di cui siamo uno degli elementi…

Nel vostro lavoro il suono e l’ascolto hanno un ruolo importante, sembra quasi sovvertiate il dominio della vista – senza però mai negarla del tutto – per dare primato all’udito. È così? Che tipo di esperienza volevate proporre al vostro spettatore-uditore? 

Marco: Esatto, la vista non la neghiamo mai, ma anche per una questione fondamentale a cui siamo rimasti fedeli fin da principio: non volevamo in nessun modo porre lo spettatore nella condizione del non vedente. La penombra in cui è immersa la scena nasce infatti da alcuni ragionamenti attorno al tema vista-cecità, che non potevano prescindere dai concetti luce-buio. Per quanto riguarda suono e ascolto è vero che hanno un ruolo principale, ma non abbiamo cercato di invertire la logica vista-udito, quanto di mettere in relazione i due sensi al fine di mettere in crisi il concetto di realtà, come evidenziamo in particolar modo nel finale: se per il vedente ciò che è reale ha una componente fortemente visiva, attraverso il suono abbiamo cercato di rompere le nostre certezze, segnalando come affidarsi solo alla vista a volte può essere molto ingannevole. Questo aspetto accade perché la realtà è sempre manipolabile dalle percezioni soggettive e dalla memoria. 


A proposito di memoria, realtà e componente visiva, qualche tempo fa leggevo che secondo le neuroscienze l’essere umano pensa e fa esperienza del mondo tramite immagini, ricreate dalla mente mediante la soggettività e l’influenza dei ricordi. Nulla quindi è mai come appare. In Le mie parole vedranno per me sembra proprio che accompagniate lo spettatore a chiedersi che cosa è reale, che cosa invece forse no…

Marco: il nostro intento era in effetti condividere non solo le testimonianze, ma anche il nostro stesso diario dell’esperienza. Lo spettatore quindi segue le nostre tracce verso quegli interrogativi che ci hanno portato a cambiare la nostra percezione del reale. Il racconto si compone infatti di memorie di altri all’interno di una cornice (uno sguardo) che è il nostro. È interessante il tuo riferimento alla percezione del mondo per immagini, perché il nostro obiettivo è stato anche quello di condurre lo spettatore all’interno del processo di formazione di un’immagine mediante le immagini raccontate da altre persone, che ne andavano a scaturire altre ancora, fino a creare una sorta di memoria collettiva. Le immagini insomma chiamano immagini e alla fine non sono di nessuno. A questo proposito mi viene in mente la testimonianza di Daiana: mentre stava “guardando” una fotografia in maniera tattile ci ha detto «io non so quanto la mia immagine corrisponda alla vostra».
Allo spettatore quindi volevamo far abitare questo territorio neutro, entrando in collisione con tutte le domande poste alle persone che abbiamo incontrato. 

Come nasce l’idea di abbinare la tecnologia del binaurale all’analogico del mangia cassette? 

Marco: Fin dall’inizio ho ragionato per polarità, tra cui anche analogico e digitale, la presenza di Marco in scena e la testa artificiale di fronte a lui. Questo dualismo ci ha permesso di far correre in parallelo due linee di scrittura sul suono – le pagine di diario e gli incontri – per dare un ordine al materiale raccolto e restituire anche le fasi del lavoro. Il mangiacassette è quindi testimone della prima parte di scrittura, le cuffie restituiscono invece memorie di un momento successivo. È stato, in altre parole, un modo per scrivere il nostro diario in scena nella maniera più stratificata possibile, a partire dagli assi della polarità. 


Per come è composta l’esperienza e per i temi che fate emergere, mi sembra che ci sia anche un ragionamento sul teatro stesso: da sempre inteso come “luogo dello sguardo”, a risalire ancora più indietro, l’etimologia lo rivela anche come lo spazio dell’ascolto. La vostra messa in relazione di vista e udito, il binomio tra analogico-digitale, sembrano rimandare a quella doppia componente visibile e invisibile del teatro. C’è stato effettivamente un ragionamento in tal senso, un’attenzione non solo sulla percezione della realtà ma anche sul modo di porsi nei confronti dell’esperienza teatrale? 

Marco: In effetti tra i primi incontri ci siamo ripetuti l’etimologia che hai appena ricordato. Tuttavia è rimasta una questione latente e invisibile, che in qualche modo ci ha guidati ma che poi ha parlato per noi. È comunque molto interessante questa riflessione, perché ci porta non solo a mettere in crisi cosa è reale e cosa non lo è, ma anche il teatro come luogo dello sguardo. 

Avete altri progetti futuri, sempre su questa linea di ricerca? 

Marco: Le mie parole vedranno per me penso sia solo un breve tratto di un percorso che ci piacerebbe fosse più lungo e che vorremmo approfondire. Al momento stiamo cercando di portare questo specifico progetto all’estero. Quest’ultimo spettacolo forse chiude la trilogia, ma non è la fine della ricerca. Per quanto mi riguarda il tema dello sguardo non finirà mai di parlarmi, penso che possa valere la pena di spenderci una vita intera. 

Andrea Dante: c’è inoltre il desiderio di proseguire la collaborazione insieme, pur mantenendoci autonomi su altre nostre progettualità. Lavorando con Marco, ho attraversato due ruoli, per Supermaschio ero attore, qui in questo caso mi sono scoperto dramaturg. Attualmente siamo quindi in vivace dialogo per capire come proseguire.

 

Ulteriori informazioni: https://www.fondazionetpe.it/spettacoli/le-mie-parole-vedranno-per-me/ 

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