Il Corsaro romantico di Verdi e Byron

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C’è un paradosso o forse solo un “non detto critico” nelle considerazioni intorno a Giuseppe Verdi, e anche se vogliamo al suo grande contemporaneo Alessandro Manzoni,  che riguarda il suo essere profondamente ‘popolare’, anzi che riguarda lo stesso termine ‘popolare’, nel suo etimo perduto e nel suo senso comune che tende a negativizzarsi in un’epoca di, purtroppo, montanti e devastanti (mentalmente e psicologicamente) populismi.

Questo non detto è il fatto che la semplicità, fattore di cui si è perso il valore positivo, delle strutture narrative, sintattiche e anche drammaturgiche che il nostro piega e impiega ai suoi fini non possa ‘contenere’ la raffinata profondità di una musica e di un canto fatti della stessa sostanza dei sentimenti (e Verdi molto amava Shakespeare essendone stato il primo grande diffusore in Italia), cosa che invece fanno, con spontanea naturalezza, svelandola, in una miscela di mente e cuore rara in ogni tempo e luogo, sulla scena.

Il Corsaro, andato in scena in prima il 17 maggio al Teatro Carlo Felice di Genova, è, io credo, un buon esempio di questa intrinseca capacità maietuca e catartica, ancor più proprio perchè è opera, tra i tanti capolavori del “Cigno di Busseto”, che minore fortuna critica e di rappresentazione ha avuto.

Ma forse è stato proprio l’elemento che più la critica storica ha sottolineato negativamente, la frettolosità cioè della composizione da parte di un Giuseppe Verdi pressato da concomitanti esigenze contrattuali, a costituire in fondo la forza di questa partitura in quanto espressione di una necessità da cui, quasi spontaneamente o automaticamente senza citare i surrealisti, sono emersi alcuni dei componenti essenziali della grammatica musicale verdiana, meno vincolati e dunque prevaricanti rispetto, direbbe Edoardo Sanguineti, alla debolissima ‘notabilità’ del testo drammaturgico, del libretto commissionato al solito Francesco Maria Piave a partire da un poemetto (una scrittura lirica infatti) di Lord George Byron.

È infatti una scrittura istituzionalmente vincolata, più che altrove, al canto e la stessa particolare lingua utilizzata, così anomala rispetto al consueto dire, è strutturata sul susseguirsi delle sonorità che solo attraverso il canto la rendono insieme semplice e profondamente perspicua anche o proprio all’orecchio ‘popolare’.

Una apparente debolezza che diventa energia e forza, espandendosi proprio come il sentimento romantico (“Romantico”, esteticamente e politicamente, era Lord Byron che morì ucciso dai Turchi e “Romantico” era Giuseppe Verdi protagonista del nostro Risorgimento) al di là della sintassi della ragione (o della ‘ragionevolezza’ e ‘verosimiglianza’ spesso amate dalla critica consueta).

La drammaturgia diventa così una articolazione mimetica non tanto di storie esistenziali quanto di sentimenti contrapposti, rispecchiandosi e ritrovandosi nel triangolare duello, che molto sarebbe piaciuto a René Girard, tra personalità che solo nel rapporto appunto mimetico con l’altro (Corrado rispetto a Medora e a Gulnara, e via sostituendo i termini) la propria ragion d’essere, la propria esistenziale verosimiglianza, mentre il Pascià Seid sullo sfondo è solo ‘occasione’ per il cambio di ‘costume’, metaforico ma continuo e fin frenetico.

Nella musica dunque si può leggere la forza di un’opera praticamente dimenticata per più di un secolo e recuperata solo a partire dagli anni sessanta del novecento, forse perché epoca in grado di accorgersi delle sue qualità, e così restituendo finalmente al pubblico non solo verdiano una partitura  (ricordiamo composta tra il 1847 e il 1848) di grande spessore, che molto del Verdi di prima ma anche di quello di poi, porta dentro di sé.

E nella musica il maestro concertatore Renato Palumbo quella forza ritrova e quella forza impone alla scena, nella sua straordinaria capacità di descrizione della psicologia e dei sentimenti e nella ricchezza di variazioni virtuosistiche che è in fondo una integrazione robusta alla povertà narrativa della storia.

Il maestro Palumbo infatti è consapevole, e ce lo fa percepire, di “quanta complessità e profondità di pensiero si nasconda dietro la semplicità del suo linguaggio”.

Una gioia per l’orecchio e per il cuore innanzitutto, e anche la stessa sua inusuale brevità, più per concentrazione che per fretta come si malignò, ne aumenta l’intensità, fino alla bellissima scena finale che è un vero e proprio giroscopio (manteniamo il linguaggio marinaro) che riflette e proietta i sentimenti in ogni angolo dell’orizzonte.

Al comando di questa ‘nave’ inevitabilmente il canto, articolato, mosso come una tempesta, ricco di saliscendi e quasi da mal di mare per i cantanti cui, è noto, Verdi chiedeva un impegno anche fisico spesso straordinario.

Ma il cast, dobbiamo riconoscerlo, è stato più che all’altezza, a partire dalle tre punte del triangolo mimetico (il tenore Francesco Meli Corrado, i due soprano Irina Lungu Medora e Olga Maslova Gulnara) e dal baritono quarto incomodo Mario Cassi Seid, ma anche nei professionali loro comprimari. Va detto che soprattutto Meli e la Maslova hanno esibito vocalità acrobatiche anche positivamente ‘sconcertanti’.

Uno spettacolo inoltre in cui ancora una volta il Coro del Carlo Felice (maestro Claudio Marino Moretti) ha potuto dimostrare la sua rara qualità, non solo di canto, ma anche di mimica recitativa e di prossemica scenica.

La regia di Lamberto Puggelli sembra aver colto la sostanziale sudditanza della drammaturgia rispetto alla partitura, mostrandosi capace non solo di non inutilmente prevaricare ma anche di sottolinearne ‘spettacolarmente’, in una scenografia che è un giusto scenario figurativo mobile e appena accennato, i passaggi essenziali.

Una positiva scoperta per molti, regalata dalla Fondazione Carlo Felice di Genova quale penultimo spettacolo di una intensa stagione d’Opera. Alla prima tutto esaurito ed applausi a scena aperta sin dalla prima scena. Ovazioni finali.

IL CORSARO Melodramma tragico in tre atti di Giuseppe Verdi, su libretto di Francesco Maria Piave, dal poemetto di George Byron. Personaggi e interpreti: Corrado Francesco Meli, Medora Irina Lungu, Seid Mario Cassi, Gulnara Olga Maslova, Selimo Saverio Fiore, Giovanni Adriano Gramigni Un eunuco Giuliano Petouchoff Uno schiavo Matteo Michi. Maestro concertatore e direttore d’orchestra Renato Palumbo. Regia Lamberto Puggelli. Scene Marco Capuana, Costumi Vera Marzot. Maestro d’armi Renzo Musumeci Greco, Luci Maurizio Montobbio. Assistente alla regia Pier Paolo Zoni. Allestimento della Fondazione Teatro Carlo Felice di Genova in coproduzione con il Teatro Regio di Parma. Orchestra, coro e tecnici dell’Opera Carlo Felice. Maestro del coro Claudio Marino Moretti.

Repliche il  24 e 26 maggio.

 

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Ho conseguito la Laurea in Estetica al DAMS dell'Università di Bologna, con una tesi sul teatro di Edoardo Sanguineti, dando così concretezza e compimento alla mia passione per il teatro. A partire da quel traguardo ho cominciato ad esercitare la critica teatrale e da molti anni sono redattrice e vice-direttrice di Dramma.it, che insieme ad altri pubblica le mie recensioni. Come studiosa di storia del teatro ho insegnato per vari anni accademici all'Università di Torino, quale professore a contratto. Ho scritto volumi su drammaturghi del 900 e contemporanei, nonché numerosi saggi per riviste universitarie inerenti la storia della drammaturgia e ho partecipato e partecipo a conferenze e convegni. Insieme a Fausto Paravidino sono consulente per la cultura teatrale del Comune di Rocca Grimalda e sono stata chiamata a far parte della giuria del Premio Ipazia alla Nuova Drammaturgia nell'ambito del Festival Internazionale dell'eccellenza al femminile.

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