17 aprile 2013, “Un tram che si chiama desiderio”, di Tennessee Williams, diretto da Antonio Latella.

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untram chiamato desiderio«Che cosa resta di noi, di ciò che siamo stati e di quello che siamo oggi?» Sembra chiederci Tennessee Williams con Un tram che si chiama desiderio, uno dei testi teatrali più celebri del Novecento. L’opera allestita innumerevoli volte nel corso degli anni e portata sul grande schermo dalla coppia Kazan – Brando riesce ancora, a distanza di oltre mezzo secolo, a risultare attuale. Stanley Kowalski, polacco rude dai modi burberi, è giunto a New Orleans da qualche anno e ha sposato Stella DuBois; donna per la quale prova un’irrefrenabile passione carnale. Blanche, sorella di Stella, nasconde un passato ingombrante ricco di sfaccettature, lati oscuri, segreti e bugie. Il suo irrompere nella vita della coppia mette a dura prova la stabilità dei rapporti. A furia di raccontare e riaprire vecchi capitoli ormai per lei chiusi, Blanche, giunge alla pazzia e viene ricoverata in manicomio. Nel frattempo Stanley e Stella concepiscono un figlio e con l’arrivo di esso sembra tornare la pace all’interno del nucleo familiare; è uno stato apparente. La moglie del polacco non può e non vuole accettare il destino della sorella il cui crollo è dovuto largamente alle forti pressioni esercitate su di lei da Stanley. Antonio Latella propone una regia diversa dal solito: innovativa, destrutturata e moderna. I faretti puntati sugli sguardi degli spettatori in platea, generano da subito un clima di straniamento, mettendo a disagio il pubblico più vicino al palco, cosicché si cali nella condizione psichica della protagonista. L’uso della luce non si limita a quei faretti, ma illumina e introduce i personaggi di volta in volta in modo differente. È una luce sia rivelatrice, «la lampadina nuda», sia mistificatrice, «il paralume di carta». È una luce, quella del proiettore centrale, che varia dal bianco sanguigno, al blu gelido. Ossia i toni degli stati d’animo di Blanche.

Il concetto di destrutturazione è fondamentale, messo in pratica dal regista tanto nella decostruzione scenografica, frammentata, che rispecchia lo scenario mnemonico di Blanche, la sua capacità di trattenere e collocare i particolari visivi, quanto nello sviluppo a ritroso; difatti l’intero spettacolo può essere inteso come un flashback – espediente narrativo di origine letteraria –, in cui il narratore – Blanche, appunto – dipana la vicenda dal suo punto di vista. La parte del dottore, interpretata da Rosario Tedesco, che dapprima parrebbe una proiezione mentale della stessa Blanche, un alter ego che la difende dai momenti più crudi e di difficile sopportazione, alla fine si scopre sia in realtà lo psicologo con cui lei ripercorre l’intero vissuto, specialmente le sofferenze. E i rumori assordanti, sgradevoli, che contraddistinguono durante lo spettacolo i suddetti istanti, rappresentano il rifiuto da parte della paziente del dolore.

Si tratta di vita in divenire, si scopre passo dopo passo quello che succede sulla scena; lo spettatore non può anticipare ciò che avverrà l’istante successivo e nemmeno chi ha letto il testo o visto altre versioni teatrali. Si è presi in contropiede, travolti da un’onda di dialoghi, silenzi, musiche, luci, rumori, paure inespresse e sguardi. Diversamente dalla pellicola cinematografica diretta da Kazan, i due protagonisti, Stanley (Vinicio Marchioni) e Blanche (Laura Marinoni), sono entità alla pari: entrambi hanno un passato (lei) e un presente (lui) che li accomuna, per quanto la loro impostazione esistenziale li collochi agli antipodi; proprio per questo non avrebbero potuto fare altro che unirsi nell’amplesso, «nella coincidenza degli opposti» (Paolo Ruffilli) si attraggono fatalmente: «Sapevamo fin dall’inizio che sarebbe andata così», dirà poi lui a lei. Altrimenti Blanche, in quanto donna intrappolata in un determinato contesto socioculturale, è vittima del maschilismo e viene strumentalizzata dai modi violenti degli uomini rozzi che la circondano, Stan e Mitch, interpretato da Giuseppe Lanino, che infine riuscirà ubriaco a possederla. In un rapporto non paritario tra i sessi, il piacere non può essere biunivoco, ma solamente di chi domina. Fatale poiché la loro unione fisica, ma non intima, conduce in extremis la situazione – almeno agli occhi di Blanche, più sensibili all’essere umano – alla corruzione e allo sfacelo: nella raffigurazione della nascita del figlio di Stella, interpretata da Elisabetta Valgoi, le risa in sottofondo di Stan, risa crudeli e disumane, trasmutano in un pianto bambino snaturato. La nascita di una nuova vita non purifica – agli occhi di Blanche – le mostruosità di Stanley, dei suoi compari e di quello specifico agglomerato sociale, bensì le perpetua. A loro non è concesso ricominciare daccapo. La climax, ancora una volta letteraria, avviene quando, sulle note di un Rock trasgressivo e un po’ trash, Stan e Blanche ballano compulsivamente all’unisono ai lati del palco: ella s’identifica con il suo carnefice, perciò, diversamente dalla pellicola, sarà lei a “stare sopra” di lui durante il rapporto sessuale, quasi non potesse fare altro, non avesse altra scelta. Non è concessa libertà alcuna alla donna, in nessun comportamento.

L’accento dell’Est Europa di Vinicio Marchioni si addice al personaggio, così l’abbigliamento “da borgata” che bene rimanda al contesto spazio-temporale dell’opera senza però risultare superato o obsoleto, siccome perfettamente in linea con molte realtà della nostra epoca (Tutti i santi giorni, Paolo Virzì).

È intrigante la parte di Eunice, personaggio secondario, inscenata da un uomo vestito da donna, Annibale Pavone; quasi per esaltare i connotati mascolini della figura del film. La quale indossa due t-shirt nel corso dello spettacolo che riportano entrambe un teschio glitter, prima neutro, dopo con i colori della bandiera americana, un “lieve” presagio di morte che, in maniera ossimorica, qui si concretizza nell’incoscienza della famiglia improvvisata, nella mancanza di tatto e di rispetto per gli altri, nel fallimento delle responsabilità nei confronti di chi ama e di chi dipende da qualcuno. Il paradigma della generazione in questione è L’insostenibile leggerezza dell’essere, del ceco Milan Kundera, acuto romanzo esistenzialista che, seppur estremizzandola, racconta quella maturata in un Occidente logorato dai regimi e abituato alla guerra di prevaricazione economica, nonché in balia di un Kitsch basso borghese, qui canonizzato, corrispondente alla perdita dei valori morali, dei significati. Dunque non sembra lontano dalla “norma” il conflitto interiore dei protagonisti.

Lo spettatore non osserva il dramma in maniera passiva, ne è coinvolto, e durante i litigi, i balli, le partite a carte e il sesso è anche lui in quell’appartamento di New Orleans. Amore e psiche si intrecciano sulle note dell’hard rock dei Led Zeppelin e diffidenza, paura, fragilità, ingenuità e barbarie sono i bassi e gli alti che corrono su di uno spartito compatto e concreto, capace di dare vita a uno spettacolo efficace e folgorante. (samuele govoni e matteo bianchi)