Il taccuino del critico: Psychiatric Circus

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È arrivata l’estate.

Desidero sperimentare, per una parte dei lavori che vedrò nei prossimi mesi, una modalità di restituzione che funziona così: durante gli spettacoli prendo alcuni appunti sul mio taccuino. Inevitabilmente (anzi: intenzionalmente) frammentari.

A seguire li ricopio qui.

Nessun approfondimento.

Alcuni lampi.

So già che qualche artista vanitoso si offenderà «perché la sua ricerca richiederebbe ben altra attenzione» rispetto a queste poche righe.

Pazienza.

Mi consolo in anticipo con Ennio Flaiano: «Il segreto è raggiungere da professionisti la disinvoltura dei dilettanti, non prevalere, far credere che la cosa sia estremamente facile, un divertimento che trova la sua ragione di esistere nel fatto di essere più leggero dell’aria».

Buona lettura.

Psychiatric Circus 

Prima di uscire di casa leggo alcuni passaggi del comunicato stampa, per farmi un’idea: 

Giochi di incastri tra acrobatica al suolo e al trampolino, verticalismo, fachirismo, contorsionismo, manipolazione, fantasismo e folle comicità per regalare agli spettatori risate di puro terrore.

Psychiatric Circus è uno spettacolo di nouveau cirque che si ispira alle suggestioni del Cirque du Soleil, ma con tinte più forti.

Ambientato negli anni Cinquanta, Psychiatric Circus racconta la vita all’interno del manicomio cattolico di Bergen, gestito da Padre Josef, dottore e direttore, e dalle sue fedeli suore. È un evento psicotico, un viaggio nella follia, un luogo in cui il senso delle cose è totalmente capovolto.

«Con il filtro dell’arte, lo spettacolo racconta quello che purtroppo è realmente accaduto nei manicomi» spiega il regista Daniele Volpin, «ma il nostro obiettivo non è la riflessione profonda, non sarebbe nostra competenza. Il nostro obiettivo è coinvolgere il pubblico e soprattutto divertire». 

Chiarissimo, direi.

Vado.

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Baracconi decorati con croci rosse in campo bianco sanguinolento.

Alla cassa un uomo con casacca verde da infermiere. 

Aprono il cancello. Entriamo in una sorta di foyer circondati da zombie, suore e, ai due lati, file di cellette con malati di mente che urlano e strepitano. Di fronte a noi il bancone del bar, forte odore di pop corn. In un angolo un venditore di magliette e cappellini a tema. Una sorta di Teatro totale che forse Wagner avrebbe apprezzato. 

Una suora ci accompagna ai nostri posti in primissima fila. Mi guardo intorno. Tendone da circo nero, performer che corrono, urlano e si inseguono mentre il pubblico si siede. A occhio e croce ci saranno circa 300 posti, questa sera sono occupati per metà. 

Gli artisti dialogano con il pubblico, o meglio lo “aggrediscono”, con lo stile decisamente efficace di certi clown o artisti di strada bravi a improvvisare «con quella pacata amara indifferenza dell’attore che conosce i polli della sua platea», direbbe ancora una volta Flaiano. 

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Psychiatric Circus è uno spettacolo-contenitore di numeri diversi a tema: due letti di ferro da ospedale vengono messi in verticale e diventano una gabbia su cui fare equilibri e acrobazie. Una pantomima in automobile con divertita ragazza del pubblico. Giocolieri con palline e beatbox. Musica dance e luci colorate. Tessuti aerei. Gag dei quattro uomini nudi che si coprono i genitali con asciugamani di spugna. Una danza contorsionistica in una grande bowl trasparente piena di acqua con musica ritmata, luci rosse e blu, fumi. Cerchi di diversi diametri con cui roteare. Numero danzato con croci sui capezzoli. Dipinto con vernice bianca su pannello nero: sembrano scarabocchi, poi lo girano di 180° e appare un volto di donna. Finale con musica metal e balletto di zombie in stile Thriller di Michael Jackson. 

Il momento più bello dello spettacolo: un uomo entra e si contorce dentro a un grande palloncino fucsia: pare uno spettacolo dei Mummenschanz, per un attimo. Perfetto. 

Psychiatric Circus, anche se appartiene a un milieu affatto diverso, ha tutte o quasi le caratteristiche del mélodrame francese di inizio Ottocento: gesti esasperati, psicologia per nulla sfumata dei personaggi, vicende intense, forte tensione emotiva supportata dalla musica, macchinari per far volare o sprofondare le figure, effetti d’acqua e di luce. La componente visuale predomina sulla partitura verbale. Detto meglio: l’estetica spettacolare soppianta l’estetica testuale. 

Lo spettacolo finisce, applausi e selfie.

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Esco domandandomi a che livello ci si ponga la questione dell’arte, in una impresa come questa. Penso che l’arte debba ontologicamente contenere una quota di rischio per chiamarsi tale, dico al mio paziente accompagnatore. Lui mi chiede se per me il circo, quello tradizionale, è arte. Lì c’è un rischio concreto, non metaforico, dice. Ma a parte questo, cos’è l’arte per te, mi chiede. 

Ecco una buona domanda. 

 

MICHELE PASCARELLA

   

Visto il 28 agosto 2015 a Forlì – info: psychiatricircus.com