Cristiano De André, continuare a innamorarsi di tutto

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Quanti fanno i droghieri perché il padre gli ha lasciato una drogheria? O quanti fanno i politici perché loro babbo è stato un politico? I Bush Jr e D’Alema Jr, se ci sono, posson batter un colpo! E i notai? E i farmacisti? Domande retoriche, naturalmente – che usiamo per inquadrare la posizione di Cristiano De André: una posizione che, a nostro avviso, regala spesso più difficoltà che agio, come testimoniano anche le tante notizie di cronaca che negli anni lo hanno visto protagonista. Un’eredità pesante, quella lasciata da Faber, e prima di andare a vedere Cristiano in concerto che canta il padre qualche pregiudizio lo fa balenare – probabilmente è lui il primo che mette in conto la cosa.

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Poi, però, al netto del “si deve campare in qualche modo” e del (crediamo) sincero amore per il padre, lo spettacolo De André canta De André, che è un po’ la versione nostrana di Zappa plays Zappa (Dweezil che suona Frank), convince nell’essere passatista, déjà vu, nostalgico e tutto il resto che si trova nelle stesse frequenze d’onda. Cristiano e la bella band che lo circonda fanno i crowd pleaser con professionalità, regalano due ore abbondanti di ologramma Faber ben fatto e, peraltro, con concessioni a un’interpretazione qui e là riveduta e corretta dove l’originale paterno preziosismo etno-folk è trasportato su binari pop-rock con puntate Pink Floyd/Peter Gabriel che ti fanno davvero domandare fra sé: chissà cosa ne penserebbe De André Sr di tutto ciò? Un vecchio adagio narra che quando non puoi più difenderti fanno di te ciò che vogliono. E lo diciamo senza cattiveria, beninteso.

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L’attacco è di quelli a moneta pesante, con il capolavoro Sinan Capudan Pascia: la band gira senza tentennamenti potente e solida, facendo capire che la serata non sarà solo un amarcord stropicciato. La prima parte è davvero un crescendo con, fra le altre, magnifiche riletture di eccellenze come Khorakhané (A forza di essere vento) – senza la famosa coda vocale, all’epoca affidata a Dori Grezzi – Un storia sbagliata – introdotto da un simpatico aneddoto dove Cristiano racconta di un tema fatto al liceo su Pier Paolo Pasolini dove prese due per mano di un «prof fascio» e che, però, rese orgoglioso Faber – Coda di lupo – forse il momento più bello dell’esibizione, con mise molto rock ma per nulla scontata – Il testamento di TitoIl bombarolo – anche qui, piace molto il nuovo arrangiamento con Cristiano che guida tutti al violino – fino Canzone per l’estate – dove il trattamento è tutto batteria/tastiere. Altro passaggio di spicco del concerto è il medley dedicato a Non al denaro, non all’amore né al cielo (1971): Dormono sulla collina e Il suonatore Jones amplificano a più non posso la seduzione prog per un risultato che davvero rende onore a quell’antico album-capolavoro.

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Un vero peccato che qualche problema d’audio abbia fustigato Crêuza de mä (metà esecuzione udita solo con i monitor di palco), anche se i tecnici provvedono in fretta a sistemare tutto. A quel punto Cristiano si siede al piano per Amore che vieni, amore che vai, gioca al Peter Gabriel tutto enfasi con una minimal hi-tec La guerra di Piero, spinge su duro rock blues per Quello che non ho, crea un arrangiamento maximal stile ultimi Pink Floyd in Fiume Sand Creek (e visto che musicalmente l’originale è la cianografia dei primi Floyd di Summer ’68, tutto torna), fino al tripudio modello PFM di Volta la carta e de Il pescatore.

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Per i bis il pubblico si scatena e chiama Cristiano più volte, visibilmente commosso da tanto affetto sia per lui che con coraggio si confronta con la propria nemesi sia per, ovviamente, il repertorio paterno: La canzone dell’amore perduto è davvero tutta poesia, passione e fiori che appassiscono ma lasciano bei ricordi mentre per La canzone di Marinella e la strepitosa, attualissima Un giudice («Fino a dire che un nano è una carogna di sicuro/Perché ha il cuore troppo, troppo vicino al buco del culo») si passa addirittura al folk per giusto due chitarre, voce e tanta, tanta intensità. E visto che il pubblico ne vuole ancora, passano minuti di battimani che sono, alla fine, ricambiati con la murder ballad Se ti tagliassero a pezzetto (niente “signorina fantasia”, il verso scelto è quello originale: «Signora libertà, signorina anarchia») e con gli occhi come vuoti a rendere di Verranno a chiederti del nostro amore per piano, voce e lo sguardo di Cristiano che più vicino a quello di Faber non potremmo immaginarlo.

CICO CASARTELLI

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