Shakespeare e i migranti. Una conversazione con Alberto Grilli del Teatro Due Mondi

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Un nutrito e mutevole gruppo di persone di diversa provenienza, lingua e cultura, giovani e meno giovani, attori e non-attori, ha dato corpo e voce a uno spettacolo che, dopo il debutto a Faenza, sarà presentato a Roma, anche in Università e Musei d’arte contemporanea.

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A beneficio di chi non vi conosce, puoi raccontare quando e come è avvenuto il vostro primo incontro con i non-attori migranti?

Nel 2011 abbiamo saputo che un gruppo di Profughi provenienti dalla Libia (era in corso la guerra e i lavoratori africani che lì lavoravano si imbarcavano senza sapere dove i barconi li avrebbero portati) era ospitato a Villa San Martino, vicino a Lugo. Siamo quindi andati nel centro che li aveva accolti, accompagnati da molti partecipanti delle Brigate Omsa, e abbiamo proposto loro di fare un laboratorio e uno spettacolo durante i mesi estivi. Così è cominciata questa avventura artistica e umana che ancora prosegue ininterrotta da allora.

Voi siete innanzi tutto artisti, non assistenti sociali né educatori. In che modo la vostra arte si nutre di questi incontri complessi?

Stanchi del solito pubblico, dei soliti rapporti con altri artisti, del solito mercato, dei soliti teatri, non volendo cadere nella routine e in quello che Copeau chiamava “cabotinage” abbiamo bisogno di incontrare la vita, le persone vere, le storie che le accompagnano per nutrirci di verità. E per dare un senso al nostro stare all’interno di una comunità sempre più disgregata e povera di etica.

 

 

Dal tuo punto di vista le persone che partecipano ai vostri progetti cosa riportano nel loro quotidiano, delle esperienze che vivono con voi?

Posso dirti quello che mi raccontano: portano a casa gioia, senso di identità nell’incontrare le differenze, autostima, bellezza, appartenenza, l’energia del gruppo. Riconoscenza reciproca.

Veniamo a questo nuovo spettacolo, partendo dal titolo e dal sottotitolo: La tempesta – azione fra terra e acqua (e Shakespeare). Il legame fra il testo di riferimento e il vissuto di chi lo mette in scena è evidente. Quali sorprese ha portato questo accostamento?

Più che sorprese, direi conferme. Le parole di Shakespeare (che ovviamente scrive in inglese ed è tradotto in tantissime lingue) parlano con forza a tutti, ancora. E ancora che tutti vivono una propria personale tempesta che spesso sfiora il naufragio: chi in maniera dura e evidente lascia la propria terra e viaggia verso altri approdi, e chi, come molti di noi Italiani, è in balia di altre onde a volte non meno minacciose.

Nella vostra azione molti segni rimandano ad altro: l’Africa costruita con i teli, la scarpa che diventa barca, l’emigrante con la valigia di cartone usata come scudo, … Secondo Jean Piaget il pensiero simbolico implica la capacità di rappresentarsi mentalmente cose, oggetti, situazioni, persone indipendentemente dalla loro presenza. Ciò presuppone imitazione differita e combinazioni mentali (per esempio: usare il manico di scopa al posto del cavallo). Nel Vocabolario Treccani leggo «Simbolo: qualsiasi elemento (segno, gesto, oggetto, animale, persona) atto a suscitare nella mente un’idea diversa da quella offerta dal suo immediato aspetto sensibile, ma capace di evocarla attraverso qualcuno degli aspetti che caratterizzano l’elemento stesso». Lavorando con persone che hanno vissuto realmente esperienze che noi non possiamo nemmeno immaginare, una umanità in sé potente e bastante, qual è dal punto di vista registico la necessità di ricorrere a funzioni simboliche, spostandosi dal qui e ora di alcuni umani riuniti attorno alla Tempesta di Shakespeare?

Nelle Azioni con non-attori usiamo sempre oggetti concreti, azioni concrete (così le chiamo) che hanno per chi li usa o agisce una immediata e quotidiana riconoscibilità. Ci si muove all’interno di un mondo fatto di cose e gesti “veri”, senza dovere in una prima fase dare loro un altro senso.

Il successivo montaggio delle azioni, l’accostamento con le parole e le musiche comincia poi a far sorgere altre immagini – spesso è la reiterazione e la moltiplicazione che porta in questa direzione- cosicché ogni partecipante inizia ad avere le proprie associazioni mentali, comincia a “riconoscere” altro dal concreto. E così succede a chi guarda; le azioni concrete diventano “metafora” senza perdere verità.

Ovviamente servono oggetti pieni di potenziale memoria, potenti nella loro semplicità (una stoffa, una valigia, una scarpa) e non legati a una particolare cultura di appartenenza: così le cose e le azioni appartengono a tutti.

 

 

Essendo il vostro, da sempre un teatro politico che si muove fra due polarità che il Novecento teatrale ha espresso -‘teatro con contenuti politici’ con finalità pedagogiche esplicite (Brecht, ad esempio) e ‘uso politico del teatro’, quello che incarna in prima persona il cambiamento della relazione teatrale, l’attivazione dello spettatore, la dilatazione del fatto scenico oltre i suoi confini tradizionali, ecc- quale efficacia politica si ricerca nel proporre lo spettacolo, come avete fatto a Faenza alla Casa del Teatro, per e con un folto pubblico in tutta evidenza amico (persone non certo ostili alla presenza dei non-attori migranti in Italia, che con ogni probabilità non chiuderebbero porti e frontiere) e non ad esempio in una piazza, come invece spesso fate?

Questa è la prima volta che una nostra Azione è parte di un progetto che non ci ha visto in Piazza in città, e anche nei Musei probabilmente incontreremo il pubblico in grande parte non occasionale.

La domanda è forse provocatoria, quasi tu volessi dire che uno spettacolo che non scende in piazza, che non ha pubblico “casuale” ma quello convenzionale (quello che normalmente va a teatro, amico o non amico -nei teatri, quando il pubblico non è amico?) non può essere politico. Possiamo dire che quasi tutto il teatro “gioca in casa”?

Noi in strada ci andiamo spesso e senza temere l’ostilità: in questo caso, e visti i tempi, ogni tanto ci conforta sapere che ancora ci sono persone che la pensano come noi, che forse non siamo tanti ma siamo uniti, e forti di principi e di valori. Serve anche ritrovarsi, riconoscersi, non sentirsi soli. Per rinsaldare il coraggio, per uscire in battaglia. Per affilare e affinare le armi dell’intelligenza.

Pensando invece al pubblico ostile all’accoglienza e all’integrazione: pensi che uno spettacolo possa realmente incrinare convinzioni e ideologie?

Penso di sì, altrimenti non crederei alla forza delle relazioni umane, all’incontro tra i corpi e gli sguardi. Almeno il dubbio, quello sì, possiamo farlo nascere. Togli propaganda e brutta politica, disinformazione e paure; tanti hanno ancora un cuore che può essere riattivato ancora prima della mente, e l’arte può e deve lavorare in questa direzione.

A Roma presenterete lo spettacolo in una Università e in due Musei, alla ricerca di un pubblico altro. Quale relazione fra etica ed estetica si instaura, in questa Tempesta?

L’etica diventa bellezza e passione, l’estetica non è fine a sé stessa ma apre le porte, consola gli sguardi.

Marginalità, periferie e situazioni sociali complesse sono da tempo oggetto dell’indagine e del fare di molti artisti. Perché, secondo te?

Credo che sia la voglia di sfide forse impossibili e il bisogno di sentirsi “utili” a un possibile cambiamento. Scendere nella vita che ci circonda e provare a ritagliarsi una funzione.

 

 

Quali realtà, in Italia o altrove, senti affini a questa vostra ricerca? E quali letture la nutrono?

Tante sono le realtà in Europa che si muovono per contrastare i nuovi e vecchi fascismi e  razzismi, l’arte deve essere “avanguardia” e “rivoluzionaria” rispetto ai propri tempi. Sento vicino  a noi volontari, ong, capitani di navi, giovani studenti che scrivono appelli, scrittori che non tacciono, teatranti che alzano gli occhi, persone che amano. Mi nutrono i gesti, le prese di posizione, il dire no all’ondata di egoismo, paura, solitudine, ipocrisia.

Per concludere: c’è un progetto a lungo termine, o un sogno, del Teatro Due Mondi che vuoi condividere con i lettori di Gagarin Orbite Culturali?

Non sono capace di progetti a lungo termine, al massimo vedo davanti a me il mese prossimo, forse due, e so cosa farò. So che la vita è fatta di incontri, e ogni incontro è un cambiamento.

Sogno che il Teatro Due Mondi continui a sognare.

 

MICHELE PASCARELLA

 

LA TEMPESTA – azione fra terra e acqua (e Shakespeare) – visto alla Casa del Teatro di Faenza (RA) il 25 giugno 2018 – info: teatroduemondi.it