“Che ve ne sembra dell’America?” di William Saroyan

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L’articolo è tratto dal nostro repertorio di numeri cartacei

Lavoro, gente onesta, poveracci, immigrati, farabutti e sognatori. Di loro, e di noi, parla Che ve ne sembra dell’America? Incredibile e credibilissima raccolta di racconti brevi, tradotti nientepopodimeno che da Elio Vittorini quando l’autore, William Saroyan, armeno nato in California, aveva solo 31 anni (1942). Prende il nome dal primo racconto Che ve ne sembra dell’America, paesano? Saroyan non solo ha scritto capolavori come questi racconti e come uno dei miei romanzi preferiti, La commedia umana. Saroyan è amico e probabilmente maestro (talvolta inascoltato) di John Fante, Fante è considerato da Bukowski un maestro, anzi il suo dio (io ho citato qui la mia personale santissima trinità). Uomo? Dio? Non c’era da far altro, in ogni caso, che dire così è la vita e lasciar correre pur avendo nel cuore il desiderio di vivere davvero, esser vivo come un uomo dovrebbe esserlo, come un dio.

Razze, nazionalità e lingue si fondono in questi racconti, un miscuglio di armeni, filippini, italiani, finlandesi, scozzesi, polacchi… Dal racconto del carico umano che ognuno di essi si porta dietro dal Vecchio Continente, dal racconto delle singolarità emerge il profumo di ognuno di loro, il profumo, o la puzza, del singolo uomo che diventa emblema dell’intera umanità. L’America che oggi conosciamo è probabilmente il risultato di questo miscuglio, ma l’America qui è solo il pretesto per parlare dell’uomo. Non importa che sia in America o sulla quarta di copertina, l’uomo si presenta sempre con la stessa storia e con la stessa intensità di godere, soffrire, sperare e disperare. È Saroyan stesso che parla in uno dei racconti e spiega Sono uno che scrive storie, e non ho che una storia da raccontare: l’uomo.

Uomo, ragazzo che di notte viene distolto dai sogni di gloria e facile successo americano da un banale mal di denti. Terribile era il male nel dente, e non sapevo che fare, e nell’oscurità urlai per il dolore, O Gesù, O Gesù, e non urlavo di dolore per il dolore del dente ma perché comprendevo com’era con tutte le cose, e che un uomo non comincia a vivere se non comincia a morire.

Come la mia maledizione ebraica preferita possano caderti tutti i denti tranne uno… per il mal di denti. Che poi il dolore è solo una tra le tante parole. Nulla si disse, né io, né mio zio. C’era troppo da dire e niente parole per dirlo.