Sessanta racconti, il premio Strega di Dino Buzzati

0
306

L’articolo è tratto dal nostro repertorio di numeri cartacei

Nel 1958 Dino Buzzati, romanziere e giornalista, riunisce in una raccolta 60 suoi racconti, già pubblicati per altro, e vince il premio Strega. C’è chi dice che Sessanta racconti sia la summa del suo mondo poetico, chi sostiene che sia stata solo una operazione commerciale per fargli vincere il premio. Io credo che la   stia nel mezzo, il libro è un mezzo per le parole, le parole Buzzati le sapeva usare bene, quindi l’ho letto con curiosità. La curiosità di chi ha letto Il deserto dei Tartari alle medie, e quasi non ricorda altro se non l’attesa, il vuoto e una profonda amarezza. Amo particolarmente la narrazione breve. Poche parole per entrare in tema e raccontare qualcosa con un senso. Buzzati in questi racconti scoperchia sempre pezzi di realtà, li mette a nudo, spesso palesando l’ipocrisia umana, mostrando il tragicomico tentativo di rimanere aggrappati ad un mondo di bugie mentre la cruda   , tanto ignorata, presenta il conto. A volte liberando, a volte appiattendo, se ignorata. Non manca l’ironia per fortuna che, pur servendo lo stesso scopo, allevia un po’ l’amarezza. Egli sorrise soltanto, sempre con quell’espressione di chi vorrebbe essere lieto eppure non può, per qualche segreto peso.

Rimango invece sempre più rattristato e ferito dalla (a me estranea) violenza verbale altrui, dalla prepotente arroganza dei venditori di nonimportacosa, dal loro calcolato finto ascoltare per illuder l’altro di un interesse e dal malcelato fremito che inevitabilmente li porta ad interrompere il racconto altrui per riaffermar sé stessi. Poche parole, povere e grevi, da imbonitori vanesi, menzogne che si ripetono per smentirsi poi da sole perché prima o poi la   affiora. Ecco, per me questi sessanta racconti sono uno squarcio nella tela che vela la   , la   delle mie stesse ferite, delle mie stesse paure, delle mie stesse delusioni e disillusioni. D’altronde la   è un bene supremo che libera.

Uno fra tutti mi colpisce, La parola proibita, una sola parola bandita dal vocabolario, una parola insignificante dicono, scelta a caso, un test, una sagace iniziativa dell’autorità per saggiare la maturità conformistica del popolo. E il risultato è stato superiore alle previsioni, perché proibire una parola è facile, rinunciare a una parola non costa gran fatica. Così il popolo può serenamente rinunciare alla coscienza che a sua volta ha dovuto adeguarsi ai tempi, adesso è trasformata in un qualcosa che le assomiglia solo vagamente, qualcosa di più semplice, più standard, più tranquillo, direi, di gran lunga meno impegnativo e tragico. Una definizione scientifica ci manca. Volgarmente lo si chiama conformismo. È la pace di colui che si sente in armonia con la massa che lo attornia. Oppure è l’inquietudine, il disagio, lo smarrimento di chi si allontana dalla norma. Non sono poi così surreali questi racconti.

P.S. Al lettore sembrerà un refuso dell’impaginatore, uno spazio di troppo, ma per amor di      anche io, umilmente, ho reso omaggio a Buzzati, omettendo in questo pezzo la parola proibita che è