Tenacia, gentilezza, autonomia. Conversazione con Luca Ricci e Lucia Franchi su Kilowatt Festival 2020

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Luca Ricci e Lucia Franchi

 

Quest’anno Kilowatt Festival compie diciotto anni. Tre cose che avete imparato, con la maggiore età.

Tenacia, gentilezza, autonomia di pensiero.

La maestosa presenza del “concittadino” Piero della Francesca, sul quale voi come drammaturghi avete lavorato in passato, ha esplicitamente influenzato o influenza il Festival? Se sì, in che modo?

Lo spettacolo a cui fai riferimento è il nostro Piero della Francesca, il punto e la luce di cinque anni fa. L’assunto di quel lavoro era che ogni classico è stato nel suo tempo un contemporaneo, ovvero un innovatore dei linguaggi, qualcuno che ha spostato in avanti l’asticella di ciò che era capace di toccare le persone. Ciò che oggi ci sembra “dato”, invece, ha dovuto faticare per farsi cogliere nella sua pienezza. Quando Piero dipingeva gli sfondi che oggi ci sembrano “classici” stava lottando contro chi, nella città di Sansepolcro e altrove, lo considerava pittore di poco valore perché nelle sue opere non metteva lo sfondo dorato, che invece lui puntava a superare, perché segno di un’arte bizantina, ormai invecchiata. Piero lo sperimentatore è dunque con noi, oggi, anche quando il contesto che ci circonda usa Piero e tutta la cultura rinascimentale che a lui si connette quasi per metterlo “contro” di noi.

Infatti, nei primi anni del nostro lavoro a Sansepolcro, abbiamo vissuto la presenza di Piero come un vero impedimento. Basandoci sui risultati del festival che di anno in anno sono sempre cresciuti, ogni volta che chiedevamo al territorio una riflessione aggiuntiva sul nostro lavoro, una maggiore centralità e anche un investimento in più, sempre ci veniva risposto “Eh, ma c’è Piero…”. Quando facevamo notare che altri Comuni di grandezza analoga al nostro, come Rosignano Marittimo per Castiglioncello o Santarcangelo di Romagna, investivano e investono ancora oggi almeno dieci volte tanto quel che investe il Comune di Sansepolcro su di noi, ci dicevano “Eh, ma noi abbiamo da mantenere il Museo con La Resurrezione”. Questo Piero era sempre la scusa per non fare.

E così, un po’ per certe durezze e immaturità nostre, un po’ perché la presenza di Piero era sempre di impedimento alla nostra azione, diciamo che con Piero siamo stati in lite per tanti anni…

Poi, nel 2013, abbiamo aperto il Teatro alla Misericordia, che è il luogo per cui Piero ha dipinto il Polittico della Misericordia che vi è stato conservato per circa 400 anni, e già dal primo momento in cui siamo entrati in quel luogo – che oggi è anche il nostro spazio di residenze – abbiamo sentito che possedeva un’aura: sappiamo che può sembrare ingenuo da dire, ma a noi pare che sia davvero così, ogni giorno che ci entriamo. I luoghi hanno energie, e la Misericordia ne ha una speciale, non fosse altro per aver ospitato tanto a lungo uno dei capolavori dell’arte mondiale. E qui, alla Misericordia, si è come generato il punto di svolta del nostro percorso di avvicinamento all’opera del nostro grande concittadino. Ci abbiamo fatto pace, insomma, e da questo dono, che per noi è stata la sua scoperta, è nato lo spettacolo che tu stesso citavi e anche un nostro desiderio nuovo di fare i conti con la tradizione.

Non a caso uno degli eventi del Festival di quest’anno è proprio una due-giorni di conferenza che prende spunto dall’opera del padrino di questa edizione, Roberto Latini, che ha per titolo La tradizione dell’innovazione e vuole appunto riflettere su come l’innovazione generi essa stessa una propria tradizione e, viceversa, su come la tradizione continui sempre a ispirare l’innovazione.

 

Piero della Francesca, Resurrezione, 1450-1463

 

A questo proposito, da qualche anno nominate per ogni edizione un padrino o una madrina: una scelta coraggiosamente fuori moda. Cosa l’ha motivata?

La volontà di parlare con le nuovissime generazioni di appassionati della danza e del teatro.

Se scorriamo la lista di quelli che sono stati i padrini e le madrine di Kilowatt (Mariangela Gualtieri, Ermanna Montanari, Virgilio Sieni, e pure Romeo Castellucci, la cui partecipazione lo scorso anno fu cancellata per una polemica scoppiata sui social media), c’è un comune denominatore, e siamo noi due, giovanissimi che ci affacciavamo a questo mondo, e restavamo toccati dalla grandezza di certi artisti e dei loro spettacoli. Abbiamo pensato a come sarebbe stato bello se in quegli anni ci fosse stato qualcuno che ci avesse preso per mano e indicato a chi e dove guardare, per imparare.

Da qui è nata l’idea delle madrine e dei padrini, proprio pensando ad altri Lucia e Luca che magari oggi, diciottenni o ventenni, si stanno avvicinando a questo mondo e cercano riferimenti, indicazioni, ma anche percorsi che vengano minimamente storicizzati e inseriti dentro una narrazione coerente. Perché, come dicevamo sopra nel caso di Piero, si può e si deve innovare anche tradendo i propri maestri, ma si deve conoscere cosa ci precede.

La scelta del padrino di quest’anno è caduta su Roberto Latini per l’impressione che destò in noi poco più che ventenni il suo primo Iago, ma anche per la coerenza di tutto un percorso artistico ed etico che porta Roberto sino a questo presente.

A Kilowatt Latini porterà un suo recente e poco visto spettacolo Amleto. Die Fortinbrasmachine, poi sarà al centro della due-giorni di convegno sopra citata (alla quale interverranno anche artisti come Claudio Longhi, Elena Bucci, Antonio Rezza e Flavia Mastrella), presenterà una sorta di mostra interattiva in cui lo spettatore avrà a che fare con la presenza della sua voce e infine proporrà in anteprima cinque testi inediti che altrettanti giovani drammaturghi hanno scritto per lui.

Il titolo dell’edizione 2020, Viaggio al termine della notte, rimanda a Céline e a un’auto-narrazione dolente ed epica. Non credete che il semplice farsi del Festival fosse una sufficiente attestazione di (r)esistenza, senza la necessità di sottolinearla ulteriormente?

Se c’è una cosa che manca a Céline è proprio l’eroismo di sé. Più che epico diremmo che è picaresco, nel senso che la vita gli si presenta sempre come ostile, e lui non fa altro che resistervi, di disgrazia in disgrazia. Non abbiamo scelto questo claim perché ci sia, da parte nostra, da sancire alcuna attestazione di resistenza, poiché crediamo di star semplicemente facendo il nostro lavoro. Quel che abbiamo preso in prestito da Céline è piuttosto la riflessione sul fatto che le notti non sono qualcosa che finiscono una volta per tutte e da cui dobbiamo tenerci lontani, ma sono parte del naturale avvicendamento del ciclo dei giorni: ci sono zone di luce e zone di ombra che si susseguono, e noi dobbiamo convivere con le une e con le altre. La cosa che più ci ha toccato del virus e della complessa situazione sanitaria corrente è stata la scoperta che l’Occidente ha fatto della propria vulnerabilità. È come se da settant’anni – dopo la fine della seconda guerra mondiale – avessimo vissuto in una continua atmosfera diurna e soleggiata, dove solo qualche nube ogni tanto è venuta a turbare la nostra certezza di una “sorte magnifica, e progressiva” (la citazione è da Leopardi): abbiamo vissuto credendo di poter programmare sempre un domani, e solo da una decina di anni, ossia dalla fine degli anni Dieci, non abbiamo più la certezza che questo domani sarà migliore dell’oggi, ma siamo sempre restati confidenti nel fatto che ci sarebbe stato altro sole, e poi altro sole, e poi altro sole ancora. Oggi, il virus ci ha messo di fronte a una notte di cui non conosciamo la fine. Quel che ci insegna Céline è che la notte va attraversata tutta, fino al suo termine, per entrare in un nuovo giorno, e che questo stesso giorno va affrontato con la consapevolezza che un’altra notte seguirà a breve. Sappiamo bene che non è un messaggio allegro né rassicurante, però l’arte ha il compito primario di portarci le brutte notizie che non abbiamo voglia di ascoltare: sennò a che serve?

Trentanove gli spettacoli in cartellone, stilisticamente e tematicamente affatto proteiformi: quali principi ne hanno guidato l’individuazione?

Un Festival è fatto di decine di incontri, relazioni, letture di progetti, visioni di prove, telefonate, speranze condivise con gli artisti. Tutto questo insieme, nella sua totalità, costituisce la narrazione che chi dirige un Festival ha intenzione di mostrare. L’edizione 2020 aveva almeno altri quindici progetti che avrebbero dovuto far parte di questa narrazione, ma che per ragioni che non dobbiamo stare a spiegare non si sono potuti realizzare. Inevitabilmente ne viene fuori una narrazione non completa. Ciò non toglie che quel che resta, che è comunque la maggioranza di quel che era previsto, e che contiene al suo interno punte di eccellenza tra le più significative dell’intero disegno, porta ugualmente con sé una visione “tellurica” del nostro presente: quasi tutti gli artisti in programma leggono le macerie di un tempo devastato, dai rimbambimenti di Andrea Cosentino ai bombardamenti di stupidità online di Filippo Ceredi, dalla vita sgretolata di un padre di famiglia di Teatro dei Borgia al naufragio esistenziale di un povero guitto interpretato da Paolo Mazzarelli. Insomma, non promettiamo un Festival allegretto e frizzantino, piuttosto un’immersione, a tratti anche dura, nell’oscurità di questo tempo.

 

Jérôme Bel, Isadora Duncan

 

Tra le proposte più inusuali di questa edizione vi è una coreografia di Jérôme Bel dedicata a Isadora Duncan. Quale rilettura vien fatta, di questo Mito della danza?

Per continuare la metafora di prima, il lavoro di Jérôme Bel, uno dei maestri della coreografia mondiale contemporanea, è un raggio di sole, nel programma di quest’anno (non l’unico, in verità): nello spettacolo non si viene semplicemente in contatto con le coreografie storiche della Duncan, ma il cuore di ciò che accade sulla scena sono piuttosto le interpretazioni e la lettura che dà Bel di quelle storiche coreografie. Mentre Elisabeth Schwartz interpreta sei pezzi della Duncan il più fedelmente possibile, un’attrice dialoga con noi spettatori e trasforma queste esecuzioni in un oggetto che ci chiede di interpretare. È insomma un continuo gioco di specchi tra scena e platea.

Un altro appuntamento non prevedibile è Almeno Nevicasse – Le parole che hai dentro, esito del laboratorio di parole e cucito tenuto con i cittadini di Sansepolcro dall’attrice Francesca Sarteanesi, tra le fondatrici del gruppo teatrale Gli Omini. Come funzionerà?

Ci sono ventidue donne di Sansepolcro, tra gli otto e gli ottant’anni, che hanno lavorato una settimana con la Sarteanesi e che lavoreranno con lei un’altra settimana ancora, prima del Festival: porteranno sulla scena maglioni che loro stesse hanno ricamato, sui quali hanno cucito una frase che ritengono particolarmente significativa, perché legata a una loro esperienza di vita. L’intreccio di trame narrative e trame del cucito è l’essenza di questo lavoro, che poi si sostanzierà in una performance finale della quale saranno protagoniste le stesse cucitrici.

 

Francesca Sarteanesi, Almeno Nevicasse – Le parole che hai dentro

 

Presenterete anche il vostro recente libro Lo Spettatore è un Visionario. Potete indicare una scelta dei Visionari per voi inaspettata, nella selezione di quest’anno?

Sì, presenteremo anche il nostro libro uscito nell’autunno scorso con Editoria&Spettacolo che, nei limiti dei numeri che si possono fare nel nostro ambiente, è stato un bel successo di attenzione e di vendite, di cui siamo molto fieri. Il libro racconta, da un lato la nostra esperienza pratica con l’idea di rendere attivi gli spettatori e di come questo format sia poi germogliato in molti altri contesti e, dall’altro lato, prova anche a offrire alcune riflessioni teoriche sul tema, sempre nate dall’esperienza. Il percorso dei Visionari è stato la base di questa nostra competenza, e dunque fai bene a collegare il libro agli spettacoli che anche quest’anno hanno scelto i Visionari. In verità nulla ci stupisce più delle loro scelte, perché il livello di competenza che hanno sviluppato è davvero elevato. Hanno scelto otto lavori complessi, differenti tra loro, ma che vanno dalle acrobazie fisico-emotive del bellissimo Un po’ di più del duo Bernabeu-Covello, all’emozionante lettera al padre di Cinzia Pietribiasi che consigliamo di non perdere. Se dobbiamo dire un tratto comune di questa selezione 2020 dei Visionari è che c’è molto scouting, tanti nomi nuovi e ancora poco conosciuti. Vogliamo però ricordare che tra il 2007 e il 2010, grazie ai Visionari, Kilowatt fu il primo Festival – o al massimo il secondo – a invitare artisti come Muta Imago, Zaches, Lucia Calamaro, Gli Omini, quotidiana.com, Carrozzeria Orfeo, Francesca Foscarini, Marco D’Agostin, Menoventi, e potremmo continuare… Diciamo che dovrebbe essere acquisito che i Visionari hanno occhio! E quest’anno, a nostro avviso, il discorso vale più del solito.

Potete nominare una sorpresa e una delusione, nella preparazione di questa inusuale edizione?

La sorpresa è aver già venduto tantissimi biglietti online, quando noi eravamo abituati ad avere solo un po’ di prenotazioni, ma quasi nessuna prevendita. La delusione è aver perso il laboratorio per attori che volevamo fare con Roberto Latini, tuttavia era impossibile, con le regole attuali, fare il tipo di lavoro relazionale e fisico che lui ha in mente. Speriamo di poterlo recuperare presto, nei prossimi anni. È una promessa che ci siamo fatti reciprocamente.

Ci vediamo a Sansepolcro.

 

MICHELE PASCARELLA 

 

20-26 luglio – Sansepolcro (AR) – info: www.kilowattfestival.it