Ragiono come se fossi una pellicola. Dialogo con Enrico Fedrigoli

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Mostrata sia - © Enrico Fedrigoli

 

È professionista dal 1981. Lavora con un banco ottico Linhof 10×12 e cura personalmente la stampa in bianco e nero delle opere, su carta baritata di alta qualità. Nelle prossime settimane sarà protagonista di diversi appuntamenti tra Verona, Bologna e Modena. L’abbiamo intervistato.

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Con quale attitudine ti appresti alla fotografia?

Prima di fare questo mestiere, ho lavorato per dieci anni come carpentiere. Di quella esperienza conservo la centralità dell’atto fisico nel costruire un manufatto dall’inizio alla fine. Operando con il banco ottico, ciò è inevitabile: si tratta di una macchina pesante, che richiede massima lentezza e precisione. E che mi tiene ben piantato a terra: come il lavoro del carpentiere, appunto.

Cosa ti interessa, del lavoro con il banco ottico?

Il banco ottico è il progenitore degli apparecchi fotografici: una scatola con alla sommità una lente che si apre a tempo. Pesa più di venti chilogrammi, occorre piantarlo a terra con un cavalletto. È il prolungamento dello sguardo, ma la percezione non passa attraverso gli occhi. Non si vede nulla mentre si scatta: occorre intuito per trovare il posto esatto da cui scattare. Se si sbaglia prospettiva, nulla funziona.

Come lo hai scoperto?

Ci lavoro da trentasei anni, dal 1984. Lo scoprii a un corso serale di fotografia, mi interessavano le immagini dei pionieri dell’Ottocento, la precisione dei fratelli Sella. L’unico modo per imparare a usarlo era, allora, frequentare una scuola di pubblicità, con still life. Tra il 1987 e il 1988 me lo portai a spalla in alcuni lunghi viaggi a piedi attraverso il deserto del Sahara.

 

Enrico Fedrigoli in viaggio – © Osvaldo Maggi

 

Parliamo di Maestri?

Nel 1998 partecipai a un workshop con Maurizio Buscarino a Savignano sul Rubicone. Mi fu utile per capire che ero nella strada giusta. Quando vide il mio portfolio mi invitò ad andarlo a trovare, cosa che non ho mai fatto. Pensando alla storia della fotografia, certo un mio riferimento è l’Avanguardia tedesca del periodo 1919-39. E poi Man Ray, mio maestro nel modus operandi. Come per lui, anche per me le migliori immagini vengono fuori da errori, da incidenti: mi ha insegnato il valore del caso. Le sue solarizzazioni sono in tutto e per tutto opere pittoriche.

Dal 9 al 14 settembre a Verona, ospite di Grenze Arsenali Fotografici, presenterai il progetto Mostrata sia. Ce ne parli?

Ho lavorato per tre anni assieme a Sara Masotti, persona e attrice che stimo molto, sull’erotismo nel quotidiano. Lo abbiamo creato in diverse case a Ravenna – ma anche in uno studio fotografico, in uno studio di scultura, in una piscina, in una casa in campagna e sul mare. Abbiamo realizzato una serie di 223 immagini. Per ciascuna, Sara ha cambiato acconciatura e abbigliamento. Ispirazione comune: il Novecento.

Come è nata e come si è sviluppata questa collaborazione con Sara Masotti?

Conosco Sara dal 1999. Le ho proposto questo percorso di indagine sulle declinazioni dell’erotismo nell’arco delle 24 ore del giorno. Siamo partiti dalla sua potente espressività attoriale. Su ogni scelta abbiamo a lungo dialogato, arrivando a decisioni condivise.

 

Mostrata sia – © Enrico Fedrigoli

 

Il 27 settembre sarai all’Arena del Sole di Bologna, ospite di PerAspera Festival, per un dialogo con lo storico dell’arte Simone Azzoni e con i direttori artistici di Ateliersi Fiorenza Menni e Andrea Mochi Sismondi. Come e quando è avvenuto il tuo incontro con il teatro?

Sono arrivato al teatro attraverso l’architettura: all’inizio degli anni Novanta, alla Cupola di Interzona a Verona, vidi un estratto da Lucifero della Societas Raffaello Sanzio – fino ad allora avevo lavorato solamente con la danza. Fu per me folgorante confrontarmi con l’architettura di quelle scenografie. Da quel momento decisi di intraprendere un percorso fotografico sul teatro contemporaneo. In seguito ho trasferito quel tipo di attenzione al lavoro con gli attori: all’architettura del corpo, successivamente a quella del volto e infine a quella del personaggio. Con Fiorenza Menni, con cui sarò molto felice di dialogare pubblicamente a Bologna, in questi mesi stiamo lavorando alla creazione di immagini a partire da sue azioni teatrali trasposte in spazi aperti.

 

Francesca Proia – © Enrico Fedrigoli

 

In questi anni hai collaborato con vari esponenti della scena contemporanea.

Non potrei lavorare con troppe realtà: ogni volta è come un matrimonio. Si pianifica con il regista, dopo che si è creato un rapporto personale e artistico. Io non sono un documentarista, cerco di dare un’interpretazione: il mio lavoro si basa sull’invisibile, su quello che meccanicamente succede ma che l’occhio non percepisce. Solitamente realizziamo quattro o cinque immagini per la stampa, il resto (che è la gran parte del lavoro) è un percorso di studio e di interpretazione che riguarda la creazione di una sorta di drammaturgia visiva, parallela a quella testuale. Da 21 anni lavoro con Fanny & Alexander, regolarmente anche con il Teatro delle Albe. Ho realizzato molti progetti diversi, spesso non legati a specifiche produzioni teatrali, insieme a Fiorenza Menni, Ermanna Montanari, Chiara Lagani, Francesca Mazza, Consuelo Battiston, Federica Fracassi, Francesca Proia, Eleonora Sedioli.

Prediligi la collaborazione con artiste?

Sì, assolutamente: le donne sono più forti, hanno maggiore resistenza e determinazione. Ciò è indispensabile in un lavoro come il mio: il banco ottico richiede sedute lunghe, pose anche di 40/50 secondi, spostamenti millimetrici e molta pazienza.

 

masque teatro, Just intonation – © Enrico Fedrigoli

 

A proposito di Eleonora Sedioli: il 16 e 17 ottobre a Modena masque teatro presenterà lo spettacolo Kiva. In concomitanza a questa presenza, tu allestirai la mostra ES.

Sì, con Eleonora abbiamo a lungo lavorato a partire dalla mia volontà di catturare una presenza scenica potente e animalesca. Nelle immagini che abbiamo realizzato l’attrice, in fuga dai suoi stessi connotati umani, instaura una relazione simbiotica con gli oggetti meccanici con i quali interagisce, diventando qualcosa d’altro, di indefinibile.

Come si sostiene, economicamente, la tua attività?

I progetti extra-teatrali di cui ti ho parlato sono tutti autoprodotti e autofinanziati. Per la sopravvivenza realizzo still life e ritrattistica, anche su commissione.

 

Thelonious Monk – © Eugene Smith

 

Un esempio di immagine ben riuscita?

Il ritratto che Eugene Smith ha fatto a Thelonious Monk: non vedi cosa sta facendo la persona ritratta, non sai chi è ma intuisci che sia un innovatore, uno bravo. Occorre evocare, piuttosto che mostrare.

 

MICHELE PASCARELLA

 

info: http://www.enricofedrigoli.it/