Immanenza, trascendenza, relazione: note su The Global City di Simona M. Frigerio e Instabili Vaganti

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La non-assenza? La memoria? L’auto-rappresentazione? La creazione di (nuovo) pensiero?

Pochi giorni fa ci si interrogava QUI su quale funzione un’ esperienza digitale (o editoriale) fosse chiamata ad assolvere, rispetto alla (rap)presentazione in presenza di arti che hanno in tale modalità il proprio naturale modo di manifestarsi.

Una recentissima lettura (The Global City di Simona M. Frigerio e Instabili Vaganti, Cue Press editore, € 24,99)  ci dà occasione di proseguire ancora un po’ la riflessione.

Instabili Vaganti, nomen omen: già il nome-manifesto del duo formato da Anna Dora Dorno e Nicola Pianzola significa la programmatica impermanenza tipica dell’arte scenica dal vivo, che per statuto accade in un qui e ora irripetibile e mai (pienamente) circoscrivibile.

Perché, dunque, un libro?

Nel caso di quello scritto con appassionata competenza da/insieme a Simona M. Frigerio, forse, per manifestare, ancor prima di spiegare, una serie di elementi complementari che sembrano contraddistinguere il progetto d’arte di vita di cui si tratta.

 

 

Memoria e viaggio, come analizza il filosofo Enrico Piergiacomi nella densa prefazione. Dilatazione e sintesi, come si racconta nel Diario a proposito di molti viaggi in giro per il pianeta alla ricerca di incontri ed esperienze che allarghino la percezione e le possibilità della rappresentazione per poi giungere a una forma-spettacolo inevitabilmente condensata, delimitata, sintetica. Analisi e narrazione, a giustapporre il chirurgico pensiero d’artista sul proprio fare e il racconto, per quanto prossimo comunque altro, di una professionista della parola che informa. E ancora: scrittura e immagini. Lingue diverse. Complessità e semplificazione.

Tuttavia, quel che ci sembra maggiormente emergere, da questa lettura, è il trinomio immanenza- trascendenza- relazione.

Immanenza e trascendenza sono due modi d’essere (non esclusivi ma, appunto, complementari) propri di quest’opera (di ogni opera, si potrà facilmente obiettare): il primo riguarda il suo consistere, materiale o ideale/progettuale (i viaggi fatti, i luoghi visitati, i dialoghi, il numero di pagine di questo libro e di minuti della performance finale, ecc), mentre il secondo concerne i modi con cui quest’opera può travalicare (vale ricordare che trascendere, nell’etimo latino, rimanda all’atto fisico dello scavalcare) il legame con ciò che la manifesta.

La relazione, infine, è l’elemento che può rendere artistico, e non solo estetico, ciò di cui si parla. E plausibile il tutto.

Se quanto appena affermato è vero in molti casi e per molti spettacoli, per The Global City, nonché per il libro che lo racconta, pare esserlo in maniera lampante, in special modo per il suo problematizzare la propria consistenza.

 

 

In cosa consiste, ad esempio, La Venere di Milo?

In un blocco di marmo alto 202 centimetri scolpito da Alessandro di Antiochia nel 130 a.C. visibile al Museo del Louvre a Parigi. Si potrebbe dire qualcosa di più, o di meno, senza sfiorare ancora la funzione (rappresentativa, storica, artistica, comunicativa, simbolica) di questa scultura.

Ciò sarebbe sufficiente a evocare la meraviglia o, più esattamente, il valore attribuito a tale capolavoro?

Probabilmente no, anche se, in tutta evidenza, l’opera d’arte Venere di Milo coincide con il blocco di marmo di una certa forma, peso e dimensione che la manifesta.

Cosa manca, dunque?

La relazione: il valore simbolico, storico, economico, formale che alcune persone (storici, critici, appassionati) nel corso del tempo hanno riconosciuto a quell’oggetto.

«L’arte è tutto ciò che gli uomini chiamano arte»: così Sir Ernst Hans Josef Gombrich apriva la sua monumentale Storia dell’arte.

Ma al di là di cavilli per cultori, il principio sembra valere anche per gli Instabili Vaganti e per la loro rigorosa e visionaria utopia: senza relazione (con i luoghi, i Maestri, le persone, le discipline, il proprio sé corporeo et ultra) non si va da nessuna parte.

Così come una musica, che non consiste veramente solo in uno spartito o in un’esecuzione strumentale ma che necessita di quello spartito e di quell’esecuzione per manifestarsi, The Global City non può che incarnarsi nelle manifestazioni fisiche (siano esse luoghi o corpi, luci o pagine) di quegli oggetti ideali.

Ecco forse una possibile funzione di questo libro: essere, letteralmente, inevitabile.

 

MICHELE PASCARELLA

 

info:  https://www.instabilivaganti.com/, https://www.cuepress.com/