Identità in transito. Quali segni e quali parole per Porpora Marcasciano?

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Sabine Pigalle, Gender Question, 2020

 

Grande sorpresa per il mese di ottobre!

Fuori posto si scentra ancor di più, e in attesa del RFF Reggio Film Festival Identità, in programma dal 26 ottobre all’1 novembre 2022 a Reggio Emilia, abbiamo deciso di parlare con Porpora Marcasciano, attorno i cui saperi ruota il film Divieto di transito di Roberto Cannavò, che sarà presentato al Cinema Teatro San Prospero giovedì 27 ottobre.

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Porpora, prima di tutto vorrei chiederti con quali pronomi posso chiamarti e dove ti posizioni in merito alle tue identità. Che descrizione dai di te?

Parto dal nome, Porpora, che rimanda a un diario ritrovato del 1700 appartenente a un castrato, a una voce bianca napoletana che si chiamava Porporino. Da lì mi è stato dato il nome: all’inizio fu Porporino, poi Porporina e alla fine Porpora. Il nome mi piaceva, soprattutto perché è riferito a un colore, e non avrei mai immaginato che diventasse il mio identificativo su tutto, al di là del cognome stesso, Marcasciano.

Su dove mi colloco, in una sorta di galassia di genere, mi è difficile rispondere. Per un semplice motivo: perché non mi sono mai piaciute e non ho mai sentito mie le collocazioni fisse, scontate, definitive. Per me la vita è sempre stata, e lo è tuttora, a 65 anni, una continua ricerca di un luogo più adatto, più familiare. E per luogo intendo sia un luogo fisico che un luogo culturale. È una ricerca come potrebbe essere quella dell’acqua o delle fonti alimentari che hanno mosso i popoli e le genti, e per me è una ricerca di genere. Non mi sono mai sentita uomo nel senso di maschio, ma tantomeno mi sono mai sentita donna. Mi sento trans, e quindi preferisco definirmi in transito, una persona alla ricerca di sé, nonostante gli anni.

Quando ho cominciato questo percorso legato a una coscienza di me, la coscienza era di una diversità rispetto a quello che mi stava intorno. Erano gli inizi degli anni ‘70, quando mancavano le parole, i concetti. Mancava tutto, perché quello è stato il periodo in cui si è entrate in scena: non c’erano i riferimenti, quindi bisognava inventarseli. Bisognava inventarsi il percorso e la strada da percorrere. Lungo questo mezzo secolo ci sono state ricerca e scoperta costanti.

Partiamo da cose concrete. Di quello che ho incontrato della tua storia pubblica, trovo molto importante il legame indissolubile tra corpo e politica, come se lo spazio per l’affermazione della propria persona nella comunità potesse nascere solo da un’urgenza intima della carne. Se dai segni nasce la parola, come dal corpo emergono voce e pensiero, quali sono i tuoi segni, e quali le tue parole?

Il corpo in termini di fisicità per me resta fondamentale, nonostante l’epoca digitale e virtuale che stiamo vivendo. Il corpo e la fisicità rimangono il punto di partenza e il punto di arrivo. L’ho sempre sentito, anche perché è sul mio corpo che ho sperimentato gioie, dolori, problemi, ricerche e anche politiche, in quanto è sul corpo che si effettuano, si implementano, si sperimentano le politiche. Il nostro corpo è un terreno di poteri politici: penso al corpo delle donne, all’interruzione di gravidanza, al corpo trans, a tutti i corpi osteggiati e ostacolati.

Il corpo è fondamentale, ma insieme a un corpo c’è una coscienza. Non entro nel merito della spiritualità, o dell’anima, ma di una coscienza di sé che legge il mondo, lì dove è sempre stato il mondo a leggere noi. Quindi lo sviluppo di una coscienza critica, che dovrebbe essere auspicabile per tutte le persone, perché è quello che ci metterebbe al sicuro dalle brutture del mondo. Questa coscienza critica è fondamentale, tanto quanto il corpo, sono due categorie che viaggiano insieme.

Non mi sono mai ritrovata nella stessa situazione del momento, del giorno, della settimana precedente, perché il mondo intorno a noi cambia, e cambiamo noi di conseguenza. Questo ci pone in una situazione di continua speculazione, di continue domande che insieme alla coscienza ci collocano. Concludo quindi dicendo: il corpo e la coscienza non definitive, non date una volta per sempre.

 

Sabine Pigalle, La Belle Hortense, 2020

 

Vorrei chiederti se hai delle narrazioni da condividere con noi sulle zone maggiormente in transito e in intersezione dell’ampio spettro dell’identità di genere. Su affermazione di identità ed età: sembra che le nuove generazioni siano in grado di attivare reti orizzontali di supporto e protezione più forti. Le persone che intraprendono un percorso di affermazione di genere in età adulta o anziana rischiano di essere più marginalizzate?

Conosco molte persone che, intraprendendo il percorso di affermazione di genere in età matura, si sono dovute confrontare con una realtà nuova, molto difficile e faticosa. Vorrei però aggiungere qualcosa anche sulle reti solidali delle nuove generazioni rispetto all’assenza di quelle adulte. Dobbiamo tener presente, sempre, il luogo e il tempo in cui agiamo, perché se non abbiamo queste categorie di riferimento tutto diventa vago. Le nuove generazioni si muovono in un tempo in cui esistono un vocabolario e dei punti di riferimento, nei quali rientrano anche le famiglie, che sono il luogo del mantenimento, della forza e dell’incoraggiamento. Nelle generazioni più mature queste reti spesso mancano, per una serie di motivi, sia perché per età la famiglia potrebbe già essere stata persa, sia perché parliamo di persone adulte che potrebbero aver preferito allontanarsi dalla famiglia di origine.

Un’altra considerazione è che le nuove generazioni si muovono prevalentemente sui social media, costruiscono conoscenze e legami mediati dai social, e i social sono un territorio dove tutto pare possibile e a portata di mano, anche se poi, nella realtà, le cose sono più complesse. Nelle nuove generazioni c’è questa intraprendenza molto forte, questa urgenza legata alla velocità che ci impone il tempo in cui viviamo. Il “tutto e subito”.

Volendo essere critica su entrambe le esperienze, è vero che nel mondo adulto è più facile che venga meno la rete solidale che permette ad ogni essere umano, ad ogni latitudine, di essere supportato in un percorso che può essere faticoso e doloroso. Ma, al contempo, la velocità del “tutto e subito” delle reti giovanili non giova. All’inizio ho parlato di ricerca: quello che sentivo e percepivo a 20 anni non era lo stesso che a 30 anni, 40 anni e via dicendo. La percezione di se stessi e del mondo attorno a 18 anni è peculiare, ci sono una forza e un’intraprendenza che difficilmente ritroveremo nel resto della vita, ma quello che ancora non c’è è proprio la ricerca, quella gioia e quel dolore che fanno parte del percorso. Penso che questa sia una grossa menomazione, che non dipende da regole normative su quale sia il tempo giusto, ma da quelle dettate dalla cultura della comunicazione di massa dei social. Questo, nel tempo, non solo credo ma sono certa creerà problemi, come li ha già creati.

Faccio un esempio. L’estate scorsa è stato chiuso a Londra l’Istituto Tavistock, l’organismo più importante al mondo che si occupava di identità di genere in età infantile e adolescenziale. La motivazione è stata sì economica, ma soprattutto è legata al fatto che molte persone che lì hanno intrapreso il percorso di affermazione di genere nella minore età hanno avuto successivamente problemi. Potremmo dire, volendo usare molto un termine forte, brusco e potente, che si sono “pentite”.

Allo stesso modo, in proporzione temporale, quando io ho cominciato e non c’erano né punti di riferimento né sostegni, molte persone hanno intrapreso azioni che spesso si sono rivelate irreversibili, come l’intervento di cambio di sesso. Per alcune di queste persone, nel tempo, è cambiata la percezione di sé, e sono conseguiti seri problemi.

Ecco, credo che ciò sia rimasto invariato per un motivo semplicissimo: la percezione che abbiamo di noi stessi e del nostro corpo richiede un percorso, che non può essere definito da un protocollo o da regole eterodirette. Occorre costruirsi, e non ci si può costruire in un giorno o in un mese. Forse nemmeno in un anno. Non so se mettere prima costruzione o coscienza, ma è necessario un percorso personale in questa direzione.

Mi ricollego parlando proprio di detransizione. Viviamo in un sistema che propone una visione binaria (per cui se non si è uomo non si può che essere donna e viceversa) e fallocentrica (per cui si può essere uomo solo se si è dotati di pene o donna solo se provvisti di vagina). La realtà dei fatti ci presenta invece identità che partecipano a vari livelli del maschile e del femminile, e persone che per essere donne o uomini non hanno necessità di possedere genitali corrispondenti secondo le norme della maggioranza. Alcune letture ipotizzano che se le persone fossero libere di poter affermare la propria identità di genere senza sentirsi in obbligo di assumere caratteristiche identitarie che le rendano più “accettabili” dalla visio della maggioranza, anche il fenomeno della detransizione, ancora poco esplorato, sarebbe meno diffuso. Condividi? 

Sono d’accordo e quello che dici lo faccio mio, ma aggiungo, col rischio di essere noiosa e petulante, che è la coscienza che fa la differenza. La coscienza di sé non è qualcosa di acquisito, non la troviamo confezionata, ma è qualcosa che costruiamo.

La pressione sociale c’è sempre stata, è indiscutibile: ci sarà fin quando ci sarà una cultura patriarcale. Anche se avessimo a disposizione tutta le capacità e le possibilità per attivare percorsi di transizione, quella pressione resterà tale fin quando esisterà un sistema patriarcale binario. Lo dico in maniera cruda: adeguarsi al sistema porta a sentirsi più forti, più tranquilli e tranquille. Ma è solo la coscienza di sé, guardarsi dentro e il guardare e osservare il fuori, che dà la vera forza. Uno psicologo, uno psichiatra, un endocrinologo, possono darti delle parti, ma per me resta fondamentale, onde evitare problemi successivi, che ognuno si prenda i suoi tempi, che nessun altro ci può e ci deve dettare.

Affermazione di identità e salute mentale. L’accesso ai percorsi di sanità pubblica che permettono l’avvio del processo di affermazione di genere passa attraverso la diagnosi di disforia di genere. Perché può essere un problema che questo iter prenda avvio da una diagnosi psichiatrica?

Prendiamo in considerazione il fatto che, per la storia e per la cultura, come persone trans esistiamo più o meno da quarant’anni, prima siamo state rimosse. Sono stati quarant’anni di lavori in corso, nei quali si sono fatti mano a mano dei progressi nella costruzione della nostra emancipazione e della soggettività trans. Fino agli anni ’60 il controllo su di noi era esclusivamente di tipo psichiatrico o carcerario, questo va tenuto nella giusta considerazione. Dagli archivi di diversi manicomi, come quello di Aversa, stanno emergendo documenti e  immagini che attestano la presenza di persone trans, definite “travestiti” o “deviati”. La storia ha una sua evoluzione.

La diagnosi di disforia di genere, a cui si fa riferimento oggi, la associo alle diagnosi che vengono fatte per qualsiasi questione che deve essere affrontata in un contesto clinico. Dall’appendicite alla tonsillectomia, nessun medico chirurgo interviene sul tuo corpo se non ha una diagnosi che chiarisca la situazione. L’ho detto prima e lo ripeto: non viviamo in un contesto libero, liberato e riconoscente, ma piuttosto pieno di ostacoli per i percorsi di affermazione di genere, che non sono né accettati né facilitati. Se questa negazione del sistema la riportiamo però nel contesto di quello che abbiamo fatto in quarant’anni, già possiamo assumere una prospettiva diversa, e vedere il bicchiere mezzo pieno.

Le evoluzioni, i cambiamenti, non partono e non sono mai partiti dall’Italia, arrivano da Oltreoceano, dal Nord Europa, dagli Stati Uniti, come i protocolli. Negli anni ‘90 hanno cominciato a prendere forma i cosiddetti “centri specialistici”: prima quello di Roma, a seguire “Le Molinette” di Torino, poi il nostro, a Bologna, e via dicendo. Prima di quello c’era il vuoto, esisteva solo il servizio privato dove pagavi fior fior di quattrini e facevi tutto quello che volevi, però, successivamente, quel fare si scontrava comunque con la realtà: oltre agli psicologi e ai medici si pagavano gli avvocati – anche se questi si pagano ancora adesso.

Il processo di autoaffermazione va costruito e lo stiamo costruendo, e questo è quello che dico alle nuove generazioni, quando non riconoscono il percorso precedente perché pensano che quel percorso possa bloccare l’autodeterminazione. Assolutamente non è così. Quel percorso è una costruzione che cambia col cambiare del tempo, e soprattutto in relazione al contesto culturale e politico di uno specifico Paese. Tutto quello che abbiamo ottenuto si può perdere da un momento all’altro, e con un nuovo governo (come quello che ci ritroviamo) dei pezzi potrebbero saltare. È bene che sia chiaro, perché a volte la storia viene vista come un grande ostacolo, e non, invece, come la grande evoluzione che è stata. I movimenti di liberazione, che siano quelli delle donne o quelli delle persone trans, hanno fatto il loro lavoro e hanno inciso, anche se non sono perfetti ma ancora perfettibili.

 

Sabine Pigalle, Gender Question, 2020

 

Mi riconosco moltissimo nella frase: il femminismo è un progetto di giustizia sociale. E, aggiungo, di giustizia intersezionale: non ci sarà giustizia fino a che rimarranno sacche di abuso, dominio e sfruttamento di persone invisibilizzate e disabilitate per la propria identità di genere, orientamento sessuale, etnia, classe, accesso all’istruzione o alla casa. Sei femminista? E se si, ci racconti cosa vuol dire per te? In quale modo il riconoscimento dei diritti delle persone trans può migliorare la vita delle persone cis?

Io sono femminista perché sono cresciuta a pane e femminismo. Arrivo da un percorso politico che, prima ancora di essere quello dell’attivismo LGBTQI+, era quello dell’attivismo degli anni ‘70, inteso in senso più generale. Ho un percorso politico che è cresciuto in quegli anni, è maturato all’interno dell’Università. Ero iscritta a Sociologia ed era un periodo in cui il femminismo era potente, aveva un’elaborazione culturale e politica altissima. Le mie amiche erano femministe, il mio gruppo di appartenenza era composto da femministe, l’unico neo era che spesso non potevo accedere ai luoghi deputati alla discussione. Vivevo a Roma. Alla casa occupata di Via del Governo Vecchio mi fermavo sull’uscio perché non potevo entrare, ma lo davo per scontato. Era così, e credo anche che fosse giusto così.

Successivamente il femminismo si è sempre intrecciato con le nostre lotte di liberazione, lì dove ad essere preso in considerazione era il genere e l’identità di genere. In tempi più recenti questo ha creato problemi con un certo femminismo che vede nell’identità di genere esclusivamente quella binaria, quella maschile e quella femminile. Ci sono stati scontri con toni molto accesi. Ma penso, e lo dico con cognizione di causa, che il femminismo ci abbia fornito la cassetta degli attrezzi per leggere il mondo e leggere se stesse e se stessi, partendo appunto dall’identità di genere, questione che prima assolutamente non esisteva ed era messa da parte, volutamente.

Rispetto alle egemonie, è proprio in quella direzione che il femminismo e i movimenti altri di liberazione si inseriscono per demolire, anche se ancora del tutto non ce la facciamo, ma almeno per neutralizzare i dispositivi di potere sulle vite e sui corpi delle persone. Ci sono tantissimi movimenti in giro per l’Italia, e in tutto il mondo, che non rientrano in quello che è il discorso mainstream, quindi spesso non si vedono. Ma esistono e producono tantissimo, c’è un’elaborazione culturale molto profonda e diffusa. La cosiddetta teoria queer, anzi la vita queer perché non è solo una teoria ma riguarda la sostanza del corpo queer, arriva dall’elaborazione di questi microgruppi, ai quali sento di appartenere, nonostante, apparentemente, faccia parte del cosiddetto mainstream: ora sono Consigliera Comunale a Bologna, sono Presidenta di Movimento Identità Trans, un’associazione riconosciuta a livello nazionale e internazionale. Ho attinto sempre da là, forse per il mio percorso politico, da questi collettivi che hanno prodotto quello che oggi ci permette di definirci, di essere e di sopravvivere.

Le parole danno forma al reale. Siamo passat* dalla definizione “transizione di genere” al dire “affermazione di genere”. Una sola parola può cambiare un sistema di rappresentazioni e scardinare stereotipi e pregiudizi. Affermare è un processo positivo, attivo, di autoproposizione, potere sulla propria narrazione, trasporto nello spazio pubblico, politico. Quali pensi siano le questioni più urgenti che necessitano di affermazione?

Io ci ritorno, eh? Ritorno sulla coscienza, e la coscienza di sé è fondamentale se dobbiamo creare o inventare parole e vocabolari. Ma “coscienza di sé” significa coscienza di sé e del mondo intorno, perché non siamo persone o soggetti isolati, esistiamo all’interno di contesti. Se viene meno questa coscienza, le parole che si inventano e i concetti che ci ruotano intorno svaporano come neve al sole. Come persone trans usciamo da una rimozione storica antica, e quindi dobbiamo immaginare tutto. Ci siamo dovute inventare, all’inizio, percorsi di sopravvivenza, poi abbiamo dovuto creare le parole, i concetti e la cassetta degli attrezzi per relazionarci con il mondo, e non abbiamo ancora finito. Guai se pensassimo che il lavoro è compiuto!

C’è bisogno di questo per disinnescare i poteri – o, come vengono definiti oggi, biopoteri -, per neutralizzarli dalle nostre vite. Per essere autogestititi, autodeterminati, bisogna essere coscienti, sennò non capisco, l’autodeterminazione da dove parte? Da una formula molto vaga sul cambiamento di genere: “Io non mi sento uomo, non mi sento donna, non mi sento questo, non mi sento quest’altro”.  Il poter approcciare questi vissuti presuppone una coscienza massiccia, che non c’entra nulla con il livello di studi, o con le categorie sociali. Si tratta di domande umane che l’essere umano, nella sua totalità, si pone e si è sempre posto, specialmente nei momenti di difficoltà. Anche solo il chiedersi: “Come mai mi trovo in questa difficoltà?”. È semplice, non ha a che fare con la lettura di libri, con lauree o diplomi, ma solo con il porsi delle domande. La mia sensazione è che queste domande siano sempre meno, ed è lì che poi ci scontriamo con la realtà, che resta quella patriarcale. Se non ci poniamo domande, le risposte arrivano solo da quella dimensione, non dalla nostra.

Affermazione di identità e disabilità. Le persone con disabilità intellettive, cognitive, oppure neurodivergenti, hanno accesso come le altre ai percorsi di affermazione di genere? Cosa succede se una persona esprime un desiderio di transizione ma è giudicata “interdetta”, cioè “incapace di provvedere ai propri interessi”, dall’autorità sanitaria?

Tante persone con diverse disabilità intraprendono percorsi di affermazione di genere. È quasi inutile dire che per loro il processo è più difficoltoso. Però esiste, e fa parte di quel mondo in movimento che si sta spostando, e sta procedendo verso la riappropriazione di sé. La formula che uso è quella marxiana: ognuno secondo le sue capacità, ognuno secondo i propri bisogni. Parto dal fatto che non siamo tutti uguali, non in termini discriminatori, di classe, o razzisti, ma per il nostro essere unici. Questa unicità va presa, vista e utilizzata come talento. Abbiamo da apprendere da ognuno, andando al di là delle provenienze, le differenze ci arricchiscono. Se questo assunto è nostro dobbiamo applicarlo, sentirlo e introiettarlo. L’intersezionalità è proprio questo: ognuno ha la sua unicità, oltre la forma, l’aspetto, e tutto il resto.

Sono buddista da 33 anni, e il buddismo mi ha dato diverse chiavi di interpretazione e di lettura. Per concludere, vorrei citare la parabola buddista de “La figlia del re Drago”. Racconta di una bambina con dieci braccia e dieci gambe, quindi appartenente a una categoria considerata “deforme”. Eppure ottenne la “buddità”, cioè la divinità che è riconosciuta a tutti gli esseri viventi oltre la percezione della loro forma presente. È una parabola molto bella, che elimina tutti i presunti limiti, fisici, culturali, psicologici degli esseri umani. No?

 

Sabine Pigalle, Durk Moroni, 2020

 

PICCOLO DIZIONARIO

Identità di genere: aspetto dell’identità che ogni persona sperimenta in merito al proprio posizionamento in un continuum che vede in un polo la mascolinità e nell’altro la femminilità. Non è un costrutto fisso ma può variare nel tempo. Non è un costrutto “naturale” ma culturale.

Affermazione di identità: percorso che possono attivare le persone transgender per rendere prograssivamente il proprio aspetto e il proprio corpo più vicini alla propria identità di genere. Può prevedere trattamenti ormonali o chirurgici.

Persona transgender: persona la cui identità di genere non corrisponde a quella che è stata assegnata alla nascita.

Persona cisgender: persona la cui identità di genere corrisponde a quella che è stata assegnata alla nascita.

Disforia di genere: diagnosi psichiatrica contenuta nel Diagnostic and Statistical Manual of mental disorders – DSM V dell’American Psychiatric Association, che indica una “marcata incongruenza tra genere esperito/espresso da un individuo e il genere assegnato”. Il DSM specifica inoltre come “la condizione è associata a sofferenza clinicamente significativa o a compromissione del funzionamento in ambito sociale, scolastico o in altre aree importanti”. La definizione della diagnosi riconduce il problema ad un vissuto individuale, e non fa riferimento al fatto che il disagio esperito possa dipendere da stereotipi, pregiudizi ed atteggiamenti discriminatori agiti dal sociale allargato nei confronti della persona che sperimenta la sofferenza clinicamente significativa. È indispensabile per poter accedere alla presa in carico sanitaria e al successivo percorso di affermazione di genere.

Detransizione: processo per cui persone con diagnosi di disforia di genere ed in seguito trattate con terapia medica o chirurgica di affermazione di genere interrompono il percorso, a volte invertendolo.

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VISIONI
Sabine Pigalle, Alpha et Omerta, 2020

LETTURE
Aranna Cavallo, Ludovica Lugli, Massimo Prearo (a cura di), Il Post: COSE spiegate bene. Questioni di un certo genere. Le identità sessuali, i diritti, le parole da usare: una guida per saperne di più e parlarne meglio, Iperborea, 2021