Fare cose con le parole. Su Terre sospese di Elizabeth Grech

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ph William Grech

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“Dire qualcosa è sempre fare qualcosa”, ci insegna la Teoria degli Atti Linguistici di John Langshaw Austin (nel celebre How to Do Things with Words del ‘62): tornano alla mente gli anni dell’università -insegnamento di Psicologia della Comunicazione, un professore oltremodo noioso, ancorché latore di un sapere illuminante- a leggere la silloge di Elizabeth Grech dal titolo Terre sospese (Capire edizioni, 2019).

“Devo tuffarmi / pescare una ad una / queste parole / che mi nuotano in testa” scrive l’autrice nella poesia d’apertura (che, nomen omen, si intitola Parole e che sembra funzionare come manifesto, dichiarazione d’intenti) “Come uno straccio / le strizzerò / prima di stenderle / e fermarle con mollette. / Le guarderò asciugarsi / indurirsi, / curvarsi / al sole infuocato d’agosto, / poi le stenderò / una ad una / sulle piastrelle umide del patio”.

Parole-cose.

Parole utensili atti da un lato a smontare e rimontare il nostro funzionare nel mondo, dall’altro a sondare stati e strati sottili, finanche innominati, dell’essere – che è ciò che l’arte dovrebbe sempre provare a fare, forse.

La lingua originale, maltese, è a fronte: leggendo queste parole a noi oscure (molte scritte con caratteri mai visti prima) si resta sorpresi da quanto alcuni termini siano completamente altri rispetto all’italiano mentre alcuni siano curiosamente simili.

Ai fini del presente piccolo discorso ciò rimanda a una strategia che questa raccolta pare adottare: intercettare condizioni, accadimenti e stati dell’essere comuni ai più (l’amore, in primis, ma anche i rapporti familiari, le mancanze, i desideri) usandoli come viatico di conoscenza.

Versi brevi, affatto concreti, a comporre poesie come minuscoli racconti, affacci su frammenti di esistenze talvolta colti in istantanee tal altra in sospese meditazioni.

L’autrice traduce e pubblica in diverse lingue. Se è vero, come dice qualcuno, che la parola è strumento e al contempo campo di esperienza, tale molteplicità di significanti e significati rende queste poesie un concentrato di opposte polarità: nominazione ed evocazione, estroflessione e mistero, pragmatismo e utopia.

Saperlo dire: “una lingua prossima ma abitata da lontananze” sintetizza perfettamente in quarta di copertina Davide Rondoni, poeta e curatore della collana in cui questa pubblicazione è inserita.

A proposito di feconde coppie di opposti: questa idea e pratica di scrittura poetica che, come accennato, pare fare così tanto affidamento sulle molte funzioni maieutiche della scrittura si chiude -ultima parola dell’ultima poesia del volume- con silenzio.

Chapeau.

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