Revolutionary Road. Niente di nuovo dalle parti del vuoto

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Gli adattamenti teatrali di opere letterarie originariamente non destinate alla messinscena, come è il caso dei romanzi sono diventati sempre più frequenti ultimamente. Un regista s’innamora tal punto della suddetta opera da volerla trascinare a tutti i costi e molto spesso contro la sua volontà (cioè dell’opera) su un palcoscenico. Ci chiediamo se lo sforzo (a volte titanico) di tramutare in teatro qualcosa che teatro non è ne valga veramente la pena visti gli esiti non sempre felici di tali ambiziosi progetti.

Gli Eccentrici Dadarò hanno creduto fortemente in una siffatta operazione, affidando al drammaturgo Renato Gabrielli la riduzione per la scena del primo romanzo di Richard Yates, Revolutionary Road. Una scommessa difficile da vincere, eppure l’alchimia questa volta ha funzionato. Ma non si tratta solo della cosiddetta “magia” del teatro che improvvisamente accade. Si tratta piuttosto di un lungo lavoro di preparazione, di studio approfondito, di tante prove, tanto sudore e soprattutto di rigore e serietà.

Del romanzo esiste anche una versione cinematografica del 2008, con protagonisti Leonardo DiCaprio e Kate Winslet.

 

 

La storia che si vuole raccontare ci sembra straordinariamente familiare. Sì, siamo nell’America degli anni ’50, il capitalismo industriale scalpita per uscire dai confini a stelle e strisce per portare i benefici del consumismo e del benessere economico su scala planetaria, ma qualcosa di subdolamente contraddittorio e molto attuale anche per noi, pubblico del terzo millennio, sembra corrodere le basi stesse del meccanismo di questa felicità obbligatoria.

Qualcosa stride già in partenza.

I giovani coniugi Wheeler sembrano l’incarnazione ideale del sogno americano.

Giovani, belli, neoproprietari di una delle casette “carine” piene di potenziale di Revolutionary Road: nome ironico (l’ironia disincantata è il fil rouge e del romanzo e dello spettacolo) per designare la strada di un sobborgo del Connecticut fatto di abitazioni tutte uguali, come tanti confetti color pastello, progettate per accogliere le esistenze della classe media americana sotto l’insegna della tranquillità, della luminosità, dell’entusiasmo e del benessere come lifestyle.

Lui, Frank, ha seguito le orme del padre nella ditta Knox Business Machines: pur nutrendo velleità artistiche o genericamente “umanistiche” (come la moglie, attrice fallita), si rende conto di aver intrapreso una carriera senza averla neanche scelta e senza chiedersi nemmeno il perché.

Le giornate scorrono tutte uguali e bisogna solo macinare lavoro, macinare reddito, macinare consumi da lunedì dalle ore 6 del mattino per costruirsi l’impero della propria felicità domestica e di coppia mortalmente vuota, benché o proprio perché mortalmente pulita, cosi simile a tutte le altre, cosi omologabile, cosi piena di conformità, cosi stereotipata.

 

 

La parola d’ordine – ieri come oggi – è: incrementare le vendite!

La coppia ha due bambini e un terzo in arrivo, motivo per cui, l’illusione di poter vivere una vita un po’ bohémien diventa sempre più un miraggio. Lui e lei però sono convinti di non essere come tutti gli altri borghesucci superficiali che li circondano. Credono (sinceramente?) nel distacco, in quell’impeto vagamente artistico che vorrebbero seguire ma si ritrovano completamente incastrati («essere è essere incastrati», ricordiamocelo sempre con Cioran!) nel bozzolo della genitorialità, in quello della comunità della quale fanno parte, in quello del lavoro che consente loro di permettersi una vita agiata alla quale sarebbero comunque incapaci di rinunciare per inseguire le loro tiepide e non meglio specificate ambizioni.

Sono due esseri mostruosi e mostruosamente vuoti April e Frank.

E la cosa più mostruosa di tutte è che sono completamente consapevoli della loro miseria interiore. Sono delle pallide comparse sul palcoscenico del teatro amatoriale e anche su quello della vita, che vorrebbero tanto interpretare il ruolo dei protagonisti. Purtroppo, il fatto di capire con la massima lucidità il funzionamento degli ingranaggi del proprio fallimento non porta di per sé alcuna soluzione, né tantomeno consolazione, anzi questa consapevolezza genera un sovrappiù di disperazione e di impotenza.

Il personaggio che dà voce a queste terribili verità è, nonostante il cliché, il matto di turno, in questo caso John, il figlio della signora Givings, che tra una seduta di elettroshock e un’altra al manicomio, allieta le serate dei coniugi Wheeler con i suoi verdetti perentori che scuotono l’apparente idillio del complesso residenziale.

Un idillio che continua a essere minato dall’inizio della rappresentazione e che si risolverà nel drammatico epilogo. E d’altronde, solo ai pazzi e ai bambini è permesso di urlare a squarciagola che il re è nudo! Sono i reietti, i non conformi, i non ancora maturi, insomma, i marginali per vocazione ad avere il coraggio di scorgere la disperazione del vuoto che tutto risucchia (carriera, successo, realizzazioni, amori, famiglia, ambizioni) perché in fin dei conti nulla ha davvero senso e la vita è solo una piroetta dell’essere sull’abisso del nulla.

 

 

Bravi i tre attori (Rossella Rapisarda, Stefano Annoni, Daniele Gaggianesi), nonostante i fastidiosi problemi con il microfonaggio che hanno rischiato di compromettere gravemente lo spettacolo. Piuttosto statica e a tratti monocorde Lei (direzione forse voluta per sottolineare l’ambiguità del personaggio), mentre i due uomini si muovono con più scioltezza in scena.  Il terzo personaggio, il mediatore o narratore a dir si voglia, che rompe la quarta parete entrando e uscendo dal racconto, fisicamente è l’immagine speculare del protagonista, tanto da sembrare il suo doppio grazie anche ai costumi e al trucco che li rende identici.

La regia e il disegno luci di Fabrizio Visconti, pur nella sobrietà dei mezzi a disposizione, hanno sottolineato il senso di minaccia incombente sia attraverso il buio che avvolge il palco sia attraverso una serie di oggetti non regolari, strambi, storti (gli scatoloni, la porta) che i personaggi cercano a tratti di raddrizzare.

Lo scricchiolio delle foglie secche sparse per terra è un ulteriore segnale d’allarme e quando Lei, April, proverà a cacciarle convulsamente sotto il tappetto capiamo che l’irreparabile sta per deflagrare. La finestra ha un’importanza scenografica marcata dal fatto di essere una specie di diaframma tra il conflitto interno, domestico e quello che si consuma su una scala più ampia all’esterno, nei rapporti con la comunità e con il modello di una società soffocante che imbriglia il singolo al carro del benessere collettivo a tutti i costi, incastrandolo e castrandolo.

Ma il vero dramma non sta nemmeno in questa costrizione bensì nell’orribile scoperta del vuoto che si è con o senza imposizioni dall’alto.

L’effetto complessivo e quello di un iperrealsimo voluto, amplificato e marcato (forse fin troppo dal semaforo che ogni tanto comincia a lampeggiare) per consegnare al pubblico questa cartolina un po’ Edward Hopper un po’ Gregory Crewdson che scava crudelmente nell’immaginario collettivo americano e in fondo, di tutti noi, proiettandoci a rotta di collo dall’apparente vita tranquilla e satolla di benessere a un’essenza fatta di pura disperazione e incolmabile vuoto.

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da Revolutionary Road di Richard Yates – di Renato Gabrielli – con Rossella Rapisarda, Stefano Annoni, Daniele Gaggianesi – regia e disegno luci Fabrizio Visconti – scene Marco Muzzolon – costumi Mirella Salvischiani – musiche originali Marco Pagani – aiuto regia Camilla Violante Scheller – un progetto La Gare – con il sostegno di Regione Lombardia – Progetto NEXT 2019 – produzione Eccentrici Dadarò

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