Attorno a Troia_Ilio del Teatro del Lemming: la materia del tempo

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Teatro del Lemming, Attorno a Troia_Ilio - ph Marina Carluccio

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Tu chiamalo, se vuoi, déjà vu.

Vent’anni fa, era il 2003.

Roma, Teatro Ateneo dell’Università La Sapienza.

Il Teatro del Lemming presentava Odisseo.

Non li conoscevo, se non per aver letto del loro lavoro su qualche libro.

Così, vado a vedere.

Prima dell’inizio un signore con tono concitato e un po’ brusco esce da dietro una tenda, piomba su noi spettatori in attesa: “Togliete gli orologi” ci ingiunge perentorio “Lascateli lì. E non parlate”.

Vent’anni dopo: 11 giugno 2023.

Rovigo, Teatro Studio.

Davanti alla porta un manipolo di persone in attesa.

Arriva quel signore di vent’anni prima (che nel frattempo ho scoperto chiamarsi Massimo Munaro) a dirci con tono concitato e un po’ brusco “Togliete gli orologi. Lascateli lì. Non parlate”.

“E fate in fretta”, aggiunge.

Poi ci fa prender per mano e in una fila indiana tutt’altro che romantica o bambinesca entriamo, attraversando un passaggio buio, nella grande sala vuota.

Bianco e nero speculari, complementari.

Dieci interpreti per dieci spettatori.

Gli interpreti divisi in due gruppi simmetrici, gli spettatori seduti in mezzo, su una lunga e larga asse di legno che divide lo spazio a metà.

O forse lo congiunge, e noi lì a far da collante: ma questo è un altro discorso.

Il primo dato lampante, qui, è la consistenza che il tempo assume: si fa materia di un’arte letteralmente temporale, costitutivamente fugace, che si consuma nel mentre del suo accadere.

Ci vuole maestria, a dar luogo e carne con lineare radicalità ai paradossi del linguaggio e, dunque, dell’umano.

Questi dieci giovani corpi-teatro, per dirla con Jean-Luc Nancy, sono stati attraversati da un corso di formazione dal titolo emblematico per questo rigoroso e visionario ensemble: I cinque sensi dell’attore.

Il loro abitare lo spazio lo rende attivo: astratto, assolutamente non descrittivo né figurativo, il cui scopo non è quello di visualizzare possibili snodi drammatici ma di esaltare l’azione dell’attore, del suo corpo vivente in azione.

E ogni azione, si sa, è ontologicamente costituita da una durata: è forma del tempo.

Vien da pensare -ricordi d’università- ad Adolphe Appia, ai celebri Spazi Ritmici progettati un secolo fa all’Istituto di Hellerau, nella felice collaborazione con Jaques Dalcroze, a rendere vivo -«drammaturgicamente attivo», per dirla con Marco De Marinis– quello che da molti per molti secoli è stato (e ahinoi spessissimo è ancora) considerato neutro contenitore di parole.

Tempo: quello indefinito della percezione si rifrange in un vertiginoso allargamento, che dal passato mitico dell’Iliade giunge fino alle armi impiegate oggi in Ucraina, in un oscillare senza posa che lascia ebbri e straniati.

C’è Bertolt Brecht con il suo sigaro, lì molto vicino.

 

Teatro del Lemming, Attorno a Troia_Ilio – ph Marina Carluccio

 

Tempo, ancora: quello lungo della fioritura di quello che sarà forse un trittico –Attorno a Troia, appunto- e quello breve e densissimo dei minuti passati in sala.

A tal proposito, e per inciso: una creazione come questa, di trenta minuti, secondo i canoni consueti “non fa serata”, come si dice in gergo, non è sufficientemente lunga per essere programmata autonomamente – rendendone ovviamente ancor più complessa la circuitazione. Quando ci libereremo da queste pastoie ottocentesche? 4’33’’ di John Cage, un esempio fra tanti, non ci ha insegnato nulla? Fine dell’inciso.

Nel dispositivo spazio-temporale del Teatro del Lemming gli opposti sono complementari, fino a coincidere: il bianco e il nero dei due spazi scenici e dei costumi degli interpreti, le energiche coreografie (termine qui da intendersi nell’accezione etimologica di “scritture di corpi nello spazio”), il rapporto tra azione presentata in scena e sua rappresentazione mediante telecamere con proiezione live, in una semplice quanto efficacemente interrogante moltiplicazione di piani e linguaggi, di materico e virtuale, di significanti e significati.

Senza posa noi in mezzo allo spazio scenico dobbiamo decidere quale lato dello spazio, e dell’azione, osservare. Un po’ come fece Allan Kaprow nel primo happening della storia, nel ’59, in cui diversi fatti (apparentemente nonsense, peraltro) accadevano contemporaneamente obbligando i fruitori a una continua scelta, a un permanere senza requie in un ineludibile presente.

Happening, vale forse ricordarlo, è termine che nella lingua inglese rimanda a qualche cosa che sta accadendo in un preciso momento.

Cosa dice al proprio tempo, questa forma teatrale antica, o comunque fuori moda se pensiamo agli orrori del cabaret televisivo che oggi riempie le sale o anche solamente a chi nel ristrettissimo alveo del contemporaneo è à la page?

Una possibile risposta fra tante (queste poche righe non vogliono certo chiudere né esaurire possibilità) è un incoraggiamento a stare vivi tra vivi, vigili e memori.

Come non pensare al ciclo The Matter of Time di Richard Serra: con questo termine, matter, che è “materia” ma anche “importanza” e “questione”, dunque “domanda”.

 

Richard Serra, The Matter of Time, 2011

 

Attorno a Troia_Ilio ha fatto da prologo al Festival Opera Prima, che da oggi -giovedì 15 giugno 2023- fino a domenica 18 giugno a Rovigo entra nel vivo, a lanciar segni e domande.

Chi può, vada.

A cercar sorprese.

A farsi da esse interrogare.

E onorare l’arte del teatro, quando è tale: misteriosa forma del tempo.

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