Nella vertigine della forma: ultimi giorni per la mostra sul Rinascimento a Ferrara

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Lorenzo Costa, Adorazione del Bambino, 1494

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Nel teatro, che è disciplina che da moltissimi anni frequento quotidianamente, c’è un detto: “Ciò che non puoi nascondere, mettilo in evidenza”.

Ecco: io di arte visiva rinascimentale non so nulla.

Con quale coraggio mi appresto dunque a scrivere queste righe?

Lo faccio in primis spinto dal sentimento dell’urgenza: c’è ancora pochissimo tempo, solo fino a lunedì 19 giugno, per vedere al Palazzo dei Diamanti di Ferrara la mostra Rinascimento a Ferrara. Ercole de’ Roberti e Lorenzo Costa.

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Oltre cento opere esposte, per affacciarsi vertiginosamente sul fare di questi due giganti.

Vertiginosamente: non tanto e non solo per la quantità di opere ma soprattutto, anche per chi come me neofita ancorché curioso si avvicinasse a questo enigmatico universo di segni, per il mistero che essi conservano.

Ecco il minuscolo suggerimento che mi sento di dare: approssimarlo con la cautela che si avrebbe nell’ascoltare una musica togolese o groenlandese ad esempio, i cui codici ci sono ignoti, o nell’ammirare le criptiche decorazioni dell’arte islamica.

È sempre una pratica auto-riduttiva, semplificare e normalizzare ciò che non conosciamo.

Ecco che, forse, una buona maniera per attraversare queste sale è non ricorndurre queste opere alle categorie del già noto: immergersi nella ricchezza di dettagli, colori, forme, espressioni, contrasti di luce e di composizione che si ostendono in quanto tali, per chi come me non ha la sapienza di inscrivere tali elementi in un sistema compiuto.

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Lorenzo Costa, San Sebastiano, 1492

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Per concludere e allo stesso tempo aprire questo personalissimo incoraggiamento riporto una pagina da Le città invisibili di Italo Calvino, che dice ben meglio di quanto io sappia fare ciò che va detto, a proposito dell’imbattersi nei segni.

L’uomo cammina per giornate tra gli alberi e le pietre. Raramente l’occhio si ferma su una cosa, ed è quando l’ha riconosciuta per il segno d’un’altra cosa: un’impronta sulla sabbia indica il passaggio della tigre, un pantano annuncia una vena d’acqua, il fiore dell’ibisco la fine dell’inverno. Tutto il resto è muto e intercambiabile; alberi e pietre sono soltanto ciò che sono.

Finalmente il viaggio conduce alla città di Tamara.

Ci si addentra per vie fitte d’insegne che sporgono dai muri.

L’occhio non vede cose ma figure di cose che significano altre cose: la tenaglia indica la casa dei cavadenti, il boccale la taverna, le alabarde il corpo di guardia, la stadera l’erbivendola.

Statue e scudi rappresentano leoni delfini torri stelle; segno che qualcosa – chissà cosa – ha per segno un leone o delfino o torre o stella.

Altri segnali avvertono di ciò che in un luogo è proibito – entrare nel vicolo con i carretti, orinare dietro l’edicola, pescare con la canna dal ponte – e di ciò che è lecito – abbeverare le zebre, giocare a bocce, bruciare i cadaveri dei parenti.

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Ercole de’ Roberti, Dittico Bentivoglio, 1473-74

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Dalla porta dei templi si vedono le statue degli dei, raffigurati ognuno coi suoi attributi: la cornucopia, la clessidra, la medusa, per cui il fedele può riconoscerli e rivolgere loro le preghiere giuste.

Se un edificio non porta nessuna insegna o figura, la sua stessa forma e il posto che occupa nell’ordine della città bastano a indicarne la funzione: la reggia, la prigione, la zecca, la scuola pitagorica, il bordello.

Anche le mercanzie che i venditori mettono in mostra sui banchi valgono non per se stesse ma come segni d’altre cose: la benda ricamata per la fronte vuol dire eleganza, la portantina dorata potere, i volumi di Averroè sapienza, il monile per la caviglia voluttà.

Lo sguardo percorre le vie come pagine scritte: la città dice tutto quello che devi pensare, ti fa ripetere il suo discorso, e mentre credi di visitare Tamara non fai che registrare i nomi con cui essa definisce se stessa e tutte le sue parti.

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Come veramente sia la città sotto questo fitto involucro di segni, cosa contenga o nasconda, l’uomo esce da Tamara senza averlo saputo.

Fuori s’estende la terra vuota fino all’orizzonte, s’apre il cielo dove corrono le nuvole.

Nella forma che il caso e il vento dànno alle nuvole l’uomo è già intento a riconoscere figure: un veliero, una mano, un elefante…

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