L’attore e il suo dopo. Su Jerzy Grotowski. Il superamento della rappresentazione di Marco De Marinis

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Jerzy Grotowski

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Alcune recensioni sono più difficili di altre.

Meglio: alcune recensioni, più di altre, fanno di colpo riaffiorare la responsabilità della scrittura critica, e l’enigma che ogni atto creativo -quale anche la scrittura critica in fondo è- contiene.

A volte succede di confrontarsi con un pensiero e una pratica della e sulla scena vertiginosi, badando, con semplici parole, a ciò che concretamente serve, nell’arte del teatro et ultra: nelle scorse settimane a me è capitato con l’ultimo libro di Marco De Marinis, Jerzy Grotowski. Il superamento della rappresentazione (Editoria & Spettacolo, 2023, € 15).

Grotowski, sia detto per chi si trovasse a leggere queste righe e fosse estraneo a questi temi, è uno dei giganti che ha segnato e rivoluzionato il Novecento teatrale.

E che in Italia, in Toscana, ha dato vita all’ultima fase della sua radicale ricerca, lasciando peraltro un’eredità vivente di donne e uomini che oggi proseguono, in modi e forme peculiari, un’indagine scenica su ciò che l’autore qui definisce “umanesimo non antropocentrico” (un nome tra molti: Sista Bramini e il suo gruppo O Thiasos TeatroNatura).

Marco De Marinis, per chi non lo conosce, è uno dei più autorevoli storici del teatro viventi.

Nella mia piccola e personale esperienza, inoltre, è la persona che mi ha insegnato quasi tutto ciò che so della storia del teatro.

Meglio: è la persona che mi ci ha fatto, con preciso rigore, appassionare.

È certo dunque difficile, se non oltremodo inopportuno, impostare questo articolo in senso valutativo, o di gusto, o peggio ancora facendo “il riassunto” di questo attraversamento testuale.

Ecco che dunque, tra le molte possibili chiavi di lettura, vorrei seguire quella che è spuntata poche righe sopra: “per chi si trovasse a leggere queste righe e fosse estraneo a questi temi”.

Jerzy Grotowski. Il superamento della rappresentazione è, fuor di dubbio, un saggio assolutamente specialistico, su una tematica certamente distante dagli interessi del pubblico generalista (delle lettrici e dei lettori, s’intende, che come si sa da par suo già è una nicchia rispetto al pubblico generalista in senso lato).

 

 

Quel che vorrei provare a evidenziare, di queste 174 pagine luminose, è la possibilità -come tutte le grandi opere fanno, qualunque sia il loro oggetto- di parlare ai molti.

E non spaventi (eccezione che conferma la regola) la dedica in apertura: A Ferdinando, Georges, Ludwick, Zbigniew. In memoria.

È abitudine di tutte le comunità -e, focaultianamente, di tutte le società di discorso– piantare paletti e staccionate per distinguere chi è dentro e chi è fuori da un determinato campo, chi ha diritto o meno di sostare in tale luogo. Uno dei modi per delimitare il campo è l’adozione di un linguaggio settoriale. Un altro- invero affatto diffuso nella società teatrale contemporanea- è chiamarsi per nome, facendo sentire chi non conosce le persone nominate, semplicemente, escluso.

È pur vero che qui si tratta di una dedica, personale e affettuosa, mentre tutto il resto-dunque ciò che davvero importa, in questo volume- è massimamente estroflesso e inclusivo.

Dunque, semplicemente: non farsi spaventare dalle due righe d’apertura e tuffarsi con cura e attenzione in queste pagine, dove viene raccontata, con passione e precisione, la vicenda artistica di una persona che è approdata al teatro come possibilità (una fra altre) per affondare nella ricerca di un “uomo pienamente umano”, cioè di qualcuno “sulle tracce della sua essenza”.

È questione, ça va sans dire, che pertiene a chiunque sia in ricerca di senso e pienezza nella e della propria esperienza umana, che si interessi o meno di teatro poco importa.

Tre esempi, fra i molti possibili.

 

Jannis Kounellis, Senza titolo, 1969

 

Primo esempio: presentazione vs rappresentazione.

Il saggio di De Marinis racconta, con numerosi e spesso gustosi accadimenti e citazioni, come ciò per Grotowski sia avvenuto attraverso le arti della scena in molti modi superando, come da sottotitolo, la rappresentazione.

Credo utile, a favore dei non addetti ai lavori, fare un esempio sulla differenza tra presentazione e rappresentazione (non nominato in questo saggio, ma chiarissimo).

È un episodio proveniente dal mondo delle arti visive, semmai questa suddivisione abbia ancora senso, nel 2023.

Si riferisce a un accadimento del 1969 (c’è aria di rivoluzione… che nostalgia!): l’artista greco naturalizzato italiano Jannis Kounellis porta alla galleria L’Attico di Fabio Sargentini, a Roma, alcuni cavalli e li lega alle pareti.

Chiama la sua opera Senza titolo.

Punto.

Non rappresenta con disegni, dipinti, fotografie, filmati, sculture o parole questi animali, ma li presenta con tanto -immagino- di nitriti ed effluvi, con la cruda datità di un fatto (Deleuze docet).

È quella di Kounellis, in tutta evidenza, un’avventura del linguaggio che si inscrive nell’esperienza del corpo.

Ed è ciò che esattamente ci racconta De Marinis, quando analizza la possibilità di “conoscenza ottenuta nell’esperienza diretta”, in primis per chi concretamente fa, in scena, in secundis per chi ne è testimone.

Come nel caso di Ryszard Cieślak nel Principe costante, muovendo verso il “superamento, a teatro, della recitazione-finzione e della rappresentazione nella direzione dell’Atto totale”.

Tralasciando in questa sede la sintesi di come avviene (questione approfonditamente analizzata nel saggio), ai fini del presente piccolo discorso è forse sufficiente ricordare che ciò si inserisce nel proteiforme e al contempo affatto coeso percorso di ricerca di Grotowski, teso senza posa a “provare Ciò Che È”.

 

Akropolis

 

Secondo esempio: sguardo da cecchino vs sguardo panoramico.

Tra le tecniche di “decondizionamento percettivo” praticate soprattutto negli anni del Teatro delle Fonti vi è lo “sguardo panoramico” o “del corvo”.

Sulla questione dello sguardo -che è ormai fatto condiviso essere elemento che crea il reale e non solo lo accoglie- credo importante riportare per intero un frammento di Chiara Guglielmi (dal suo saggio Le tecniche originarie dell’attore: lezioni di Jerzy Grotowski all’Università di Roma) presente nel volume.

Ancora una volta, repetita iuvant, provo a mettere in evidenza ciò che nell’incontro di specialisti di un tema specifico (in questo caso De Marinis e Guglielmi, su Grotowski) può divenire patrimonio comune e condivisibile proporzionalmente all’esattezza del pensiero e delle parole che lo manifestano.

Eccole, dunque:

“Nella nostra cultura si impara a guardare come un cecchino, si impara cioè a fissare i singoli punti e i contorni delle cose, come se si guardasse un obiettivo a cui mirare. In effetti questa riflessione sullo sguardo si può ricollegare a quella di Grotowski sulla cultura occidentale nel suo insieme: secondo Grotowski generalmente gli occidentali agiscono, guardano, camminano, sempre con un fine, uno scopo. I loro movimenti, i loro sguardi, le loro azioni, sono sempre finalizzati ad un obiettivo. Questo tipo di approccio alla realtà esterna è l’esatto contrario dello sguardo panoramico”.

Touché.

 

Il Principe costante

 

Terzo esempio: religiosità vs/e a-religiosità.

“Il cristianesimo occupa uno spazio decisivo, preponderante anche se non esclusivo, nella cosiddetta culla dell’Occidente e quindi è parte di tutti noi europei, che lo vogliamo o no, credenti e non credenti”: in uno dei saggi del volume, l’autore analizza approfonditamente, con la consueta documentata esattezza che pare pleonastico rimarcare ancora, la religiosità a-religiosa di Grotowski.

Attraverso lo scandaglio del suo stratificato rapporto con la Chiesa polacca e soprattutto con la cultura cristiana in senso ampio affiora la possibilità di integrare (verbo forse consumato, oggi, ma in questo caso credo pertinente) spinte e mondi in apparenza sideralmente distanti, se non antitetici.

Un esempio fra molti, nell’inesausta ricerca del “mistico blasfemo” Grotowski: la principale base testuale di Action (1994 e sgg.) era fornita da alcuni loghia (detti, sentenze) del Vangelo apocrifo di Tommaso.

 

Marco De Marinis

 

A lungo si potrebbe -e forse si dovrebbe- continuare, per render giustizia alla compattezza di questo piccolo, densissimo volume.

Ma per concludere, sempre con lo sguardo rivolto ai molti e non ai teatrologi, riporto una frase che credo possa essere un utile incoraggiamento per tutte e tutti noi sempre più abituati, ogni giorno, a emettere sommari giudizi su ciò in cui ci imbattiamo, e di cui spesso sappiamo poco o nulla, annullando in noi, senza remore, l’altrui complessità: “[…] un modo per circoscrivere, accerchiare l’enigma Grotowski, non certo per riuscire a scioglierlo”.

Nessuna pretesa di conoscere -e poter spiegare- questa vicenda umana nella sua interezza.

Detto da uno dei più grandi esperti al mondo del teacher of performer polacco, mi sembra che contenga in sé il seme, o fors’anche la piccola fioritura, d’una grande Rivoluzione.

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