L’enigma materico di Odradek di Menoventi. Intervista a Gianni Farina, Consuelo Battiston e Francesco Pennacchia

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ph Marco Parollo

Il Festival Colpi di Scena. Sguardo nel contemporaneo a cura di Accademia Perduta/Romagna Teatri e ATER Fondazione, ha ospitato, martedì 26 settembre negli spazi di EXATR a Forlì, il nuovo spettacolo di Menoventi dal titolo (kafkiano) Odradek.

Ne abbiamo parlato con gli artefici principali: Gianni Farina (drammaturgia, regia, scene e luci) e Consuelo Battiston e Francesco Pennacchia (interpretazione).

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Il teatro, si sa, è luogo del noi. Ogni spettacolo è frutto di diverse competenze, di saperi proteiformi che si intrecciano. Così è, o almeno dovrebbe essere, per chi il teatro lo guarda e ci ragiona pubblicamente. Per questo motivo ho deciso di condurre questo dialogo a partire da alcune scritture critiche di persone che hanno visto il vostro Odradek nelle due precedenti occasioni di pubblica presentazione, al Ravenna Festival e a B-Motion. Innanzi tutto, e in senso generale: Sergio Lo Gatto su Teatro e Critica vi definisce «una macchina di ragionamento unica sui limiti della rappresentazione». In che modo questa nuova creazione ha fatto progredire la vostra riflessione su quanto da lui evidenziato? Detto altrimenti: cosa avete scoperto?

CONSUELO

Abbiamo sempre cercato di creare un linguaggio adatto a ogni nuovo lavoro, come se ogni opera dovesse parlare con una modalità espressiva nata dal soggetto.

Odradek ci ha permesso di attingere a un campionario di modalità sceniche con cui avevamo già interagito.

Ci siamo dati la possibilità di poterlo fare e forse è questa la novità.

Abbiamo per esempio utilizzato il loop per inserirlo dentro ad una storia che ha una sua parabola, senza rimanere ancorati nella logica ferrea della ripetizione ossessiva e matematica, scoprendo il piacere di scegliere le strade dettate dal racconto.

Il rapporto attore/platea non è stato stravolto, lo spettacolo ha un impianto tradizionale, a differenza di altri lavori che giocavano con il qui ed ora portando avanti un’ambiguità tra la situazione della rappresentazione e il contesto della cornice teatrale, ambiguità che amiamo molto ma che non era necessaria in questo caso.

Ci sembra che la storia intessuta trasli l’odierno in modo così peculiare da far emergere immediatamente l’assurdità del presente, un assurdo determinato dalle situazioni e non dalle attitudini sceniche che giocano invece sul piccolo, sul rarefatto, sul plausibile. 

Rodolfo Sacchettini di Altre Velocità cita il vostro primo spettacolo, di quasi vent’anni fa, In festa, individuando affinità e divergenze con quella aurorale creazione. È per voi possibile, in relazione alle rispettive funzioni sceniche, enucleare sinteticamente due o tre elementi di continuità, nel vostro percorso, e altrettante nette variazioni?

GIANNI

Rodolfo ricorda bene quel lavoro, la sua osservazione è corretta.

Ci sono elementi che ricorrono quali i pacchi misteriosi, il campanello senziente e soprattutto la sorpresa generata dalle straordinarie coincidenze (le scatole contengono un desiderio ancora inespresso).

Un altro richiamo a quel mondo incantato e rarefatto è lo stile asciuttissimo della recitazione: tutto è controllato ed essenziale, non un muscolo, non un respiro sfugge alla partitura eseguita da Consuelo e Francesco.

CONSUELO

La casa del nostro primo lavoro è l’ambiente dove la solitudine esplode durante una festa organizzata per colmare un vuoto, ma è troppa la mancanza, le persone sono pezzi di corpo, una mano da stingere, un mezzo volto da baciare, la festa non riesce a essere occasione di comunitaria vicinanza.

GIANNI

Sì, la casa è centrale.

C’è unità di luogo in entrambi i lavori, e questo luogo sembra in qualche modo essere dotato di coscienza: una coscienza creata per controllare, sorvegliare, mettere nei ranghi.

CONSUELO

In entrambi i lavori l’abisso e l’ironia convivono, l’uno porge il fianco all’altro.

GIANNI

C’erano la crudeltà di Orwell e l’ironia assurda di Ionesco allora, le oscure profezie di Anders e le ridicole follie di Kafka oggi.

Entrambi i lavori poi sono guidati dalla poetica di Enzensberger.

 

ph Marco Parollo

 

Dal punto di vista della drammaturgia testuale di Odradek, pare che in un continuum di parole-cose siano interpolati frammenti poetici e letterari (Hans Magnus Enzensberger, appunto, e poi Vladimir Majakovskij) che di colpo ne mutano consistenza e temperatura. Di derivazione letteraria è d’altronde, anche il titolo dello spettacolo (dal racconto Il cruccio del padre di famiglia di Franz Kafka, presente nella raccolta Un medico di campagna). Come drammaturgo in che maniera hai elaborato il testo? E come regista come e in base a quali principi hai permesso che la pratica della scena lo facesse evolvere?

GIANNI

Le due funzioni si confondono nel nostro modo di lavorare.

A dire il vero non sempre ci possiamo permettere di dedicare tempo alla scrittura scenica, a volte i progetti devono nascere a tavolino per ridurre le giornate di prova; questa volta non è stato così, siamo riusciti a ritagliare qualche giorno per l’improvvisazione, che ha nutrito enormemente la drammaturgia.

Dopo aver messo a fuoco al meglio delle nostre possibilità un tema, un ragionamento, una catena di domande che ci stanno a cuore, iniziamo a ipotizzare situazioni sceniche che io e Consuelo andiamo a sperimentare grossolanamente.

Dopo questa verifica rivediamo il progetto iniziale e prendiamo decisioni più consapevoli.

È a questo punto del lavoro che abbiamo deciso di chiamare Francesco per creare la figura del corriere e di ambientare tutta la vicenda nell’appartamento di M.

Poi ho scritto alcune bozze sulle quali gli attori hanno improvvisato, e dagli appunti presi durante le improvvisazioni ho scritto il testo definitivo.

Le incursioni degli autori che hai citato non hanno regola: la poesia di Enzensberger è sempre stata appesa vicino al mio computer dopo la morte dell’autore – avvenuta proprio all’inizio di questo percorso – è quindi figlia della volontà di rendere omaggio alla nostra principale fonte di ispirazione, mentre Kafka e Majakovskij si sono infiltrati non so nemmeno come, a un certo punto mi sono entrati in testa e li ho semplicemente trascritti nel punto che ritenevo adatto.

Rodolfo Sacchettini, ancora, parla del vostro lavoro attoriale sottolineando il «residuo di umanità avvolto in un involucro di alienazione». Vi riconoscete in questa definizione? Se sì, come avete lavorato, dal punto di vista specificamente tecnico, in questa direzione?

FRANCESCO

In un certo senso si, l’involucro di alienazione è una sorta di crosta sotto la quale si agita qualcosa, un magma vitale che, come in un vulcano quiescente, ogni tanto cerca uno sfogo, una via d’uscita.

In Odradek ogni sommovimento può generare forse una crepa in quella crosta, ma tutte le volte si finisce per retrocedere, per tornare quasi al punto di partenza.

La relazione tra i due personaggi che s’incontrano sulla scena, M e Q, è ostacolata, oltre che dai dispositivi tecnologici di Odradek, da una sorta di disabilità dei due, infatti si sviluppa in maniera difficoltosa, risultato di un lavoro sulla recitazione teso a cercare un imbarazzo patologico, un’afasia che porta a continui controtempi, a una comunicazione impacciata anche per le cose più semplici.

Come per esempio quando devono salutarsi, M e Q, schiacciati dalla tecnologia au pouvoir, ma pur sempre esseri umani, sembrano non ricordare come si fa.

Si cammina lungo un sottile filo recitativo, ascoltare per non ascoltarsi, stare insieme per stare ognuno nel proprio mondo, sorridere per mostrare i denti sulle difensive.

In definitiva credo che Consuelo e io in questo lavoro giochiamo a demolire quello che si chiama “saper stare al mondo”.

CONSUELO

Sì, riconosco il nostro lavoro nella definizione di Sacchettini. Spesso durante le prove ci siamo detti che dovevano essere due figure a cui lo spettatore si deve affezionare, in cui possa riconoscersi anche un po’.

Abbiamo spesso parlato di atmosfera rarefatta.

Ci siamo ispirati ai personaggi dei film di Aki Kaurismäki, alla fissità di alcuni momenti che diventano immagini statiche, pose tenute per un tempo leggermente più lungo del normale.

Dobbiamo calibrare la stranezza e la normalità.

Mi sembra, a volte, che ci siano degli elastici a tenere tese le azioni.

Abbiamo anche parlato di fiaba e quindi alcuni elementi della gestualità e dei costumi sono stati ispirati anche da questo contesto immaginario.

Essendoci tempi molto dilatati nei dialoghi, che devono reggere all’interno di uno stupore fatto di niente, abbiamo deciso di velocizzare certi passaggi per non ammorbare lo spettatore.

Ottenere questo equilibrio delicato senza cadere nella noia o nella mestizia è stato un po’ come appuntare con gli spilli una grande tenda all’uncinetto bagnata nella colla al polistirolo: un lavoro insegnatomi da mia mamma quando ero bambina, che richiedeva cura, attenzione, pazienza, geometria, ed è così anche in questo lavoro.

Lo stile dev’essere disadorno, non esibito; per creare un fuori luogo, ho cercato di raffreddare gli impulsi, di rendere normale l’azione di parlare con un oggetto, senza sottolineare l’impossibilità della situazione.

Aggiungo che è stato anche molto divertente lavorare con Francesco perché mi ha dato l’opportunità preziosa di ragionare in scena, recuperando gioco e leggerezza.

 

ph Marco Parollo

 

Come spesso capita nel mondo teatrale, tu Francesco sei impegnato in diverse collaborazioni, nonché in tuoi progetti autonomi. Quali peculiari attenzioni sceniche richiede lavorare con i Menoventi, rispetto ad altre tue esperienze?

FRANCESCO

A parte una sostanziale intesa su certi principi generali del lavoro teatrale, che ho percepito subito, via via ho capito che dovevo richiamarmi ad alcune mie caratteristiche di attore di matrice comico-popolare e di “maschera”, che però al tempo stesso andavano edulcorate, calmierate.

Ma non eliminate, anzi.

Di conseguenza il mio lavoro sia in Entertainment, con Tamara Balducci, sia in Odradek con Consuelo, diretti entrambi da Gianni, è stato un interessante “miniaturizzare”, impreziosendola, una mia natura di guitto.

Un appartamento «allo stesso tempo banale e misterioso»: così Alessandro Fogli sul Corriere Romagna definisce l’ambiente di Odradek, che a me ha ricordato una wunderkammer onirica e incubotica che sembra immaginata da Sandy Skoglund e illuminata da James Turrell. Quali riferimenti nel vasto campo delle arti visive hanno nutrito la creazione dello spazio scenico e delle luci, così matericamente significanti?

GIANNI

Ti ringrazio per i riferimenti, che trovo azzeccatissimi.

Insieme ad Andrea Montesi, eclettico architetto prestato alle arti visive e al teatro, ho guardato per prima cosa al surrealismo.

Era già in campo l’elemento magico, sapevamo che avremmo giocato con l’illusionismo e devo dire che inizialmente si è fatto strada anche il gusto kitsch dell’immaginario dei prestigiatori moderni, che trovo imbarazzante.

Per fortuna abbiamo virato altrove, lasciando però una traccia di quell’esperienza nei colori saturi delle pareti della casa.

La preziosissima consulenza di Daniele Torcellini mi ha fatto capire tante cose sul comportamento dei colori in relazione alla luce: nell’arco di due incontri mi ha aperto un mondo e questa nuova consapevolezza cromatica sarà molto utile anche per i progetti futuri.

 

ph Marco Parollo

 

Sara Perniola su PAC paneacquaculture mette in evidenza la relazione interattiva con gli oggetti (il divano che inghiotte M, la lampada difettosa che diventa parlante, i bicchieri che si rompono improvvisamente, la migliore amica di M che è un programma vocale, la cornice di una foto che allo schiocco delle dita cambia colore). Quale funzione magica assolve, nelle vostre intenzioni, questa sorta di animismo pop e postmoderno?

GIANNI

L’elemento magico caratterizza la fiaba, e abbiamo sempre considerato Odradek una fiaba distopica, ma soprattutto restituisce bene ciò che Gunther Anders chiama “dislivello prometeico” o “vergogna prometeica”. Ci sentiamo inferiori a ciò che riusciamo a realizzare, i nostri prodotti ci superano, valgono più di noi, contano più di noi e oggi – come ampiamente previsto da Andres negli anni ‘50 – ragionano meglio di noi.

Il mondo è strutturato per accogliere al meglio le merci, non gli umani, che sono relegati al ruolo di consumatori.

Il mondo è fatto per gli apparati, che da tempo ci superano in affidabilità e precisione, e le nostre esistenze dipendono dai capricci del mercato, dominato dai giganti tecnologici.

Illuminante è stato un capitolo de L’uomo è antiquato in cui Anders paragona l’impotenza sbigottita e atterrita de L’apprendista stregone di fronte agli oggetti che hanno preso vita grazie all’incantesimo che lui stesso ha pronunciato ma che ora non è più in grado di controllare.

Così i nostri prodotti dominano le nostre case e le nostre vite, non possiamo più fermarli.

ChatGpt è solo un’espressione più eclatante di altre in un processo avviato molto tempo fa.

Solo quando il nostro prodotto supremo – la bomba atomica – avrà cancellato la razza umana, il ciclo si interromperà.

Infine: mi sembra che questo vostro dispositivo linguistico si costituisca, ancor più che in passato, come un enigma materico non da risolvere, ma in cui sostare. Forse per l’esplicito riferimento a un tema attuale (il consumismo), ma senza che esso divenga in alcun modo un messaggio o, peggio, una morale. Qual è -e so di chiedervi uno smisurato sforzo di sintesi- la funzione del vostro teatro (o, restringendo il campo, di questo nuovo spettacolo)?

GIANNI

Odradek è una fotografia del nostro tempo che non suggerisce nessuna linea di condotta e non sposa nessuna causa politica.

Il teatro per me ha sempre una funzione sociale, ma quando si riduce a manifesto programmatico perde forza, diviene sollazzo consolatorio per le classi medie che conoscono già sia la tesi di partenza che la conclusione a cui giunge il provocatore di turno.

Voglio però chiarire un punto fondamentale: considero l’arte per l’arte l’espressione di una casta di cinici privilegiati che non riescono a empatizzare con “gli ultimi”, come li chiamava Turoldo.

Parlare solo del proprio male di vivere senza mai fare conti con l’ingiustizia sociale significa essere pienamente complici del sistema costituito.

Dunque, cosa fare?

Non credo che ci sia una ricetta vincente; noi stiamo percorrendo strade diverse, a volte opposte, per tenere viva una fiammella che non spiega niente a nessuno, ma che continua ad ardere nonostante tutto per scaldare un po’ questo mammifero freddo, gelido, che sottovive a menoventi gradi.

CONSUELO

Mi viene da rispondere che facciamo teatro per raccontare a modo nostro ciò che viviamo, quello che ci attanaglia, che ci fa soffrire, che non ci torna.

Forse la funzione ultima, al di là di tutti i temi, è incontrare l’altro, condividere una diversità.

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