Uno sguardo da dentro: Arianna Pozzoli racconta Diari d’amore, il debutto a teatro di Nanni Moretti

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ph Luigi De Palma

Da poco meno di un mese il regista cinematografico Nanni Moretti ha fatto il suo ingresso nel mondo del teatro, con Diari d’amore. Lo spettacolo racchiude in sé due drammi: Dialogo e Fragola e panna, scritti da Natalia Ginzburg, celebre scrittrice italiana vissuta nel secolo scorso.

Per l’occasione abbiamo incontrato Arianna Pozzoli, attrice teatrale dal folto curriculum, che ha lavorato, per citarne alcuni, con Emma Dante, Massimiliano Civica, Dante Antonelli, Muta Imago, e di recente è approdata anche al mondo del cinema con il film Il sol dell’avvenire di Nanni Moretti. E proprio con Moretti ora recita in Diari d’amore.

Buongiorno Arianna. La prima cosa che ti chiedo, davanti ad uno spettacolo come Diari d’amore, costituito da due storie, è: quale personaggio interpreti e in quale dei due drammi. 

Io sono Barbara, la coprotagonista di Fragola e panna. Lei è una ragazza diciottenne che arriva in questa casa di campagna mentre c’è una bufera di neve, ma non trova la persona che sta cercando: il suo amante Cesare, un uomo di quarant’anni.

Trova la moglie di lui, Flaminia, che però sa già della loro relazione, quindi non è il solito intrigo d’amore all’italiana. Infatti Barbara non si riduce al personaggio dell’amante, anzi non lo è quasi mai, proprio perché in scena non è mai assieme a Cesare.

Il primo atto di Fragola e panna, che è la parte centrale, più forte, si costruisce tutto sul confronto tra Barbara e Flaminia, di diversa classe sociale ed età, che hanno un diverso rapporto con Cesare. Ed è molto interessante l’incontro tra queste due donne, perché Natalia Ginzburg lo racconta in un modo per nulla scontato. Non è uno scontro carico di odio e invidia ma nemmeno una sorellanza, è un rapporto altalenante tra l’odio e l’amore.

Flaminia è una donna insoddisfatta, raffreddata nei rapporti, e Barbara è una persona ancora libera. Soprattutto nell’espressione della sua emotività, che non è imbrigliata dentro alle maglie di rapporti ipocriti, soprattutto borghesi. L’aspetto sociale è importante perché Barbara appartiene ad una classe sociale più povera e umile di Flaminia e Cesare. Quindi viene narrato anche lo scontro tra queste due classi sociali.

Natalia Ginzburg gioca con i valori cari alla società borghese: matrimonio, fedeltà, maternità, amicizia. Valori che oggi hanno assunto significati nuovi: di matrimonio non si parla quasi più, la fedeltà si considera sopravvalutata (è sacrificabile al piacere e alla convenienza), la maternità non è più un obiettivo e l’amicizia è digitale. Ma allora il testo è ancora in grado di parlare al pubblico di oggi?

La grandezza della Ginzburg è che, nonostante la nostra epoca sia ben diversa da quella in cui lei scriveva (Fragola e panna è del ‘66, addirittura prima del ‘68), è stata in grado di affrontare temi come quelli che hai citato tu, che sono temi femminili e di rivendicazione femminile. E questi vengono fuori semplicemente perché lei, molto spesso, parla di donne.

C’è uno dei suoi primi racconti in cui il protagonista è un uomo. E lei, in una lettera a Leone Ginzburg, dice che è la prima volta che si è messa a fare un protagonista uomo e che pensa che non lo farà mai più perché non gli riesce, non gli appartiene. Infatti lei racconterà poi sempre di donne.

Il motivo per cui questo testo può parlare ancora oggi è perché l’autrice, anche se scriveva in una società differente, ha avuto la sensibilità di osservare dei temi che al tempo erano dei valori inattaccabili, trattandoli in maniera da mostrarne le difficoltà e le crepe interne.
Il matrimonio non è mai un luogo di felicità, l’essere madre non è una cosa che si dà per scontata, come non è scontato l’amore che una donna può provare per i propri figli.

Quest’ultimo tema ritorna spesso, in vari racconti. Ad esempio ne La strada che va in città. Ma anche in Fragola e panna, in cui è particolare il rapporto vissuto da Barbara con suo figlio, che lei chiama sempre “il bambino”. Come se fosse un bambino arrivato all’improvviso nella sua vita, èd è interessante perché anche una ragazza di diciotto anni come lei è una bambina. Una bambina che improvvisamente ha un bambino.

Ovviamente il mondo che noi raccontiamo nello spettacolo è più vicino a una società degli anni ’60 che a quella di oggi, però le emozioni, le sensazioni che i nostri personaggi rivendicano, la solitudine, il senso di abbandono, il desiderio di libertà e di felicità, sono delle cose che loro sentivano dentro la società di allora e che si sentono anche dentro la nostra società, magari legate a una condizione femminile propria di quel tempo ma che si vive in un modo diverso anche oggi.

Questa sensibilità che ha Natalia Ginzburg nel raccontare il mondo femminile probabilmente deriva prima di tutto dal suo essere donna. Nanni Moretti, come regista uomo, in che modo ha potuto e saputo coglierla?

Come dicevi, lui è un uomo. Quindi l’unico modo in cui è stato possibile è tramite l’ascolto. E lui ha ascoltato tanto, che significa che con Nanni noi abbiamo dialogato, che non ci ha imposto delle cose e abbiamo sempre mantenuto vivo il dialogo. Il modo in cui ha ascoltato è partito prima di tutto scegliendo il testo e poi guardandoci lavorare e sviluppando un dialogo.

Tu hai lavorato con Moretti sia a teatro che al cinema. Hai ritrovato un approccio diverso da parte sua nel muoversi nel mezzo teatrale rispetto al mezzo cinematografico?

Al cinema lui lavora in modo molto meticoloso per costruire un ciak. È molto attento ai dettagli e confida che nella ripetizione si riuscirà a raggiungere la versione ottimale.

Per cui prima di scegliere un take buono, ne fa 30, 40, 50… e ci si ritrova a fare la stessa scena moltissime volte.

Questo tipo di lavoro se lo è portato anche a teatro, dove ovviamente la condizione è un po’ differente, perché il teatro non è un’arte fissa. Quindi è proprio lì che si è creato un dialogo con noi, che venivamo da esperienze teatrali pregresse (non a caso ha scelto tutti attori teatrali, non cinematografici).

Con lui abbiamo ripetuto questi testi fino allo sfinimento, in dialogo e a volte anche un po’ in conflitto, perché alla fine uno spettacolo non è qualcosa di perfetto, ma è più qualcosa in movimento, come una camminata, che non può essere identica tutto il tempo.

Nel tuo percorso di formazione hai approfondito lo studio del corpo e del movimento, della danza, dell’acrobatica, in alcuni lavori, come Atto di adorazione, anche del karate. Ma allo stesso tempo hai affrontato ruoli e lavorato con registi, come anche Moretti, che si affidano molto alla parola. La domanda che ti faccio, un po’ provocatoria, è questa: ritieni che il teatro sia più corpo o parola?

Il teatro, per me, è solo corpo, su questo non c’è dubbio.

Però la parola, per come lavoro io, è corpo. Nel senso che è qualcosa che viene fuori solo se il corpo è vivo, in relazione, nello spazio.

Quando parlo del corpo non intendo necessariamente una coreografia o una danza, perché comunque noi siamo corpo anche nelle nostre azioni quotidiane e nei gesti di uno spettacolo di prosa. Io Barbara l’ho trovata studiando come sta seduta, come sta in piedi, come ascolta.

Nel cinema è diverso, ma il teatro è prima di tutto uno spazio con dei corpi, che sono in relazione gli uni con gli altri. E gli spettatori sono prima di tutto in ascolto dei corpi e dello spazio. Se non capiscono cosa succede tra quei corpi, lì sul palco, poi non sono in grado di seguire, di capire le parole.

La presenza fisica in scena è una caratteristica che il cinema non può avere.

Il cinema taglia, seziona le parti del corpo, con i primi piani, i piani americani, i dettagli… In questo senso c’è un maggior potere dell’immagine e del regista, che opera le scelte.

Qualcuno diceva che il cinema è l’arte del regista è il teatro è l’arte dell’attore.

Certo, c’è una differenza. Se nel cinema è il regista che compie le scelte di cosa mostrare, a teatro è il pubblico che sceglie cosa guardare. Il pubblico di questo spettacolo sarà probabilmente  costituito in buona parte da chi conosce e segue Nanni Moretti. Si tratta di persone forse più abituate al cinema che al teatro, pensi che possano trovarsi a loro agio davanti ad uno spettacolo teatrale? 

Sicuramente i grandi fan di Nanni Moretti riusciranno ad avere confidenza con il mezzo teatrale, perché Nanni, anche lavorando al cinema, ha sempre portato con sé quella follia scanzonata del teatrante, che lo contraddistingue.

Più in generale, sempre parlando di pubblico, come pensi che sia cambiato il gusto nella società di oggi, che definirei “divanizzata”, abituata a fruire di contenuti direttamente da casa, individualmente?

Secondo me è un po’ complesso, perché non c’è un pubblico oggi. Come non c’è un teatro.

C’è un pubblico molto abituato e affezionato al teatro, che è particolare, perché riconosce nel teatro un luogo che non può essere sostituito da nessun’altra forma di arte, e pretende delle cose specifiche del teatro. E poi ci sono le persone a cui ti riferivi tu, un pubblico (non so se si può utilizzare questa parola) di massa.

Per la direzione in cui stanno andando i media e le arti, è sempre più difficile l’approccio al teatro, perché è un luogo dove bisogna mantenere la concentrazione e soprattutto sostenere i silenzi.

Mi sono accorta che, quando lo spettacolo inizia a diventare un po’ più coinvolgente da un punto di vista emotivo, quando si alza la tensione in sala, se in scena c’è silenzio si sentono i rumori del pubblico, che tossisce, che si sistema sulle sedie. Io sono dell’idea che sia un indicatore di come sia più difficile oggi condividere momenti emozionanti e di tensione con altre persone, presenti nello stesso luogo. Perché ci siamo abituati a stare per i fatti nostri, dove possiamo reagire in un diverso modo. Ma il teatro è un luogo che richiede un abbandono, dove sei in compagnia di altre persone.

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Lo spettacolo Diari d’amore ha lasciato da poco l’Arena del Sole di Bologna e approderà a Modena, dall’8 all’11 novembre, al Teatro Storchi (info qui).

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